Poesia Epica

Ulisse e le Sirene. Omero immagina le Sirene come uccelli con testa di donna.
Soltanto nei secoli successivi si affermò l'idea che la Sirena avesse un corpo di pesce.

Origini della Letteratura. Poesia e Prosa

La letteratura è l’insieme delle opere scritte con uno stile bello e con contenuti interessanti.
La letteratura si distingue in prosa e poesia. La poesia è più antica perché è caratterizzata da una serie di tecniche che servono a ricordare a memoria il testo, quindi è una forma di arte precedente alla scrittura, anche se nella nostra epoca ormai è composta per iscritto. La poesia è caratterizzata dal verso, cioè il rigo della poesia composto da un determinato numero di sillabe e con accenti prestabiliti che danno al testo un ritmo ben riconoscibile. La tecnica poetica comprende anche le rime. Ovviamente nella traduzione di una poesia da una lingua ad un’altra, si perdono le caratteristiche poetiche.
Facciamo un esempio con l’inizio della Divina Commedia di Dante Alighieri, il capolavoro della poesia italiana:
Nel mezzo del cammin di nostra vita (undici sillabe, accenti su 6° e 10° sillaba)
Mi ritrovai per una selva oscura (undici sillabe, accenti su 4° e 10° sillaba)
Che la diritta via era smarrita (undici sillabe, accenti su 4° e 10° sillaba, rima con “vita”)
Ci sono persone che hanno imparato a memoria tutta la Divina Commedia, che conta ben 14.233 versi.
Il poema più lungo nella storia dell’umanità è il Mahabarata, che appartiene alla letteratura dell’antica India, scritto in sanscrito, conta oltre 200.000 versi.
La prosa, invece, riproduce il nostro modo normale di esprimerci in quanto non ha necessità di regolare il numero di sillabe impiegate, accenti, ecc. Sulla pagina si riconosce perché la scrittura riempie i righi. La prosa esiste da quando è stata inventata la scrittura.
Gran parte della letteratura antica, sia in prosa che in poesia, è ormai scomparsa. Soltanto l’invenzione dei libri a stampa nel XVI secolo ha consentito la conservazione delle opere letterarie attraverso i secoli. La letteratura più antica al mondo che è possibile conoscere è quella dei Sumeri e degli Egizi, che hanno inventato la scrittura per primi intorno al 3.000 a.C.



Epopea di Gilgamesh

L’Epopea di Gilgamesh è il più antico poema epico conosciuto.
Un poema epico è un genere di poesia che narra in molte migliaia di versi miti o leggende del passato, dove protagonisti sono divinità ed eroi.
Il testo dell’Epopea di Gilgamesh è stato scoperto su dodici tavolette d’argilla in scrittura cuneiforme in lingua babilonese, trovate nella biblioteca reale di Ninive (Iraq), antica capitale dell’Impero Assiro. In realtà l’opera originale, in lingua sumera, è ben più antica, cioè del 2000 a.C. circa, ma ne rimangono pochi frammenti. Il protagonista del poema è Gilgamesh, quinto re di Uruk, probabilmente un personaggio storico anche se certamente non ha compiuto le incredibili imprese qui narrate. Era considerato figlio della dea Ninsun e del re di Uruk Lugalbanda, dunque per due terzi dio e per un terzo uomo.  La città di Uruk, di cui Gilgamesh secondo la leggenda aveva costruito le mura e il tempio di An ed Ishtar, eiste realmente. Essa è una della più antiche al mondo, citata anche nella Bibbia come Erech; attualmente la località si chiama Warka ed è in Iraq.
Trama dell’Epopea di Gilgamesh
Gilgamesh, re sumero di Uruk, è un guerriero crudele, che maltratta un popolo sempre più stanco delle sue prepotenze. Gli dei, dunque, per punirlo, decidono di creare un uomo in grado di contrastarlo, Enkidu, rozzo e selvaggio.
I due lottano, ma lo scontro finisce alla pari. Meravigliato dalla forza di Enkidu, Gilgamesh stringe con lui un patto d'amicizia. Decidono di andare insieme alla Foresta dei Cedri per prelevare il prezioso legno di questi alberi. A guardia della foresta c'è però un mostro, Humbaba, che i due riescono a sconfiggere.
Gilgamesh viene corteggiato da Ishtar, dea della bellezza e della guerra, che vorrebbe sposarlo. L’eroe però la rifiuta, visto il triste destino dei passati amanti della dea. Allora Ishtar, con l'aiuto di Anu (dio del Cielo e padre di Ishtar) invia contro i due amici un ferocissimo toro divino di colore blu. Nel combattimento, Enkidu blocca il selvaggio animale e Gilgamesh gli infila la spada tra le corna, uccidendolo. Offesa, Ishtar fa morire Enkidu con una terribile malattia. Gilgamesh scopre così per la prima volta il dolore per la perdita di un caro amico e rimane molto scosso.
Decide dunque di intraprendere un viaggio alla ricerca del segreto dell'immortalità. Viene a sapere di un uomo a conoscenza di questo segreto: Utanapishtim, molto vecchio e saggio che scampò, grazie all'aiuto del dio Enki, al diluvio universale, e a cui gli dei fecero il dono dell'immortalità. Egli vive isolato, al di là dell'oceano della Morte e, dato il grandissimo segreto che conosce, la sua casa è raggiungibile solo dopo aver superato molti ostacoli. Gilgamesh riesce a superare ogni prova, tra cui gli uomini scorpione, giungendo finalmente nel luogo dove vive Utanapishtim.
La delusione di Gilgamesh è, però, grande: il saggio gli risponde che la morte è inevitabile per l'uomo che, prima o dopo, dovrà lasciare questo mondo. Gilgamesh, ormai senza speranze, sta per andarsene quando Utanapishtim, impietosito, gli rivela che c'è un'unica possibilità per l'eterna giovinezza: una pianta che si trova in fondo al mare. Gilgamesh parte subito alla ricerca del prezioso vegetale e, dopo averlo trovato, decide di riposarsi sulle rive di un ruscello. Al suo risveglio, scopre che la pianta tanto preziosa è stata mangiata da un serpente, che dopo averla mangiata ha cambiato pelle. Sconfitto, torna così ad Uruk, la sua città.
Nel finale il testo originale è presenta molte lacune, dovute certamente alla mancanza di alcune tavolette andate perdute. Recentemente sono però state trovate altre tavolette che raccontano del suicidio di Gilgamesh.



Iliade e Odissea

Presentazione. Che cosa sono l’Iliade e l’Odissea.

Iliade e Odissea sono i più antichi poemi epici d’Europa e sono scritti in greco. Da tali opere ha inizio la letteratura della civiltà occidentale. Prima dell’Iliade e dell’Odissea la letteraura greca era soltanto di tipo orale e perciò è andata perduta, infatti è stata dimenticata man mano che si diffondeva l’usanza di scrivere i testi letterari. Dunque Iliade e Odissea sono state le prime opere di poesia tramandate per mezzo dell’alfabeto greco.
Gli antichi Greci affermavano che l’autore era Omero, un poeta cieco, di cui ignoravano la città di origine e il periodo in cui era vissuto. In realtà la cecità di Omero potrebbe essere un’invenzione. Probabilmente i Greci pensavano che il suo nome derivasse dalle parole: “O-me-oron” che in greco vogliono dire “Il-non-vedente.” Questa interpretazione non era casuale. Secondo la cultura di quel tempo il poeta è un uomo che non guarda la realtà che lo circonda, perciò è cieco, anzi guarda una realtà di livello superiore, divino, infatti è a contatto con la Musa, una divinità figlia di Mnemosine (=la dea Memoria), in grado di ricordare e raccontare al poeta il mito, che per i Greci non è invenzione ma storia sacra. I Greci ritenevano che il poeta non inventasse nulla, anzi che ascoltasse dalla Musa una verità di origine divina da cantare in poesia agli altri esseri umani in occasioni speciali.
Come si svolgeva la poesia orale prima di Omero? Ne sappiamo qualcosa dall’ottavo libro dell’Odissea, dove si descrive il poeta Demodoco, anch’egli cieco. Di lui Omero dice: “Molto la Musa lo amò e gli diede il bene e il male: gli tolse gli occhi, ma il dolce canto gli diede.” Durante il banchetto, alla corte di Alcinoo, re dei Feaci, Demodoco canta il mito accompagnandosi con il suono della cetra (fig.1), mentre alcuni giovani compiono una danza. Egli racconta nell’arco di una serata, dunque in poche migliaia di versi, un mito dall’inizio alla fine, come la lite tra Ulisse ed Aiace per le armi di Achille oppure gli amori segreti tra Ares, dio della guerra, e la bencoronata Afrodite. Il poeta epico, in greco detto “aedo,” che vuol dire “cantore,” era persino capace di improvvisare l’opera in base al mito scelto dall’uditorio. Il canto era di tipo orale: non andava letto ma solo ascoltato perché non si tramandava per iscritto, bensì a memoria, da una generazione all’altra. Oltre alla corte nobiliare, le festività religiose in onore degli dei rappresentavano un altro momento importante di canto della poesia orale.


Rispetto alla poesia orale, Iliade e Odissea risultano molto diverse. Già i Greci avevano notato la differenza. Il filosofo Aristotele ha scritto che Omero era nettamente superiore ai poeti più antichi, quelli di tipo orale. Infatti l’Iliade non racconta un mito dall’inizio alla fine in poche migliaia di versi da recitare in una serata, bensì racconta in ben 15.693 versi, divisi in 24 canti, l’episodio dell’ira di Achille per la morte di Patroclo e tante altre vicende correlate accadute nell’arco di 51 giorni durante l’ultimo anno della decennale guerra di Troia, senza che sia narrata la conclusione del conflitto. Altrettanto complessa è la trama dell’Odissea, che in 12.009 versi, divisi in 24 canti, racconta il viaggio di Telemaco per 31 giorni alla ricerca del padre Ulisse e 28 giorni del decennale viaggio di Ulisse stesso dall’isola di Ogigia fino in patria, l’isola di Itaca, mentre gli eventi dei primi nove anni del viaggio di Ulisse sono narrati a metà dell’opera quando il protagonista li riferisce al re Alcinoo.

Antefatto dell’Iliade.
Alle nozze festeggiate sull’Olimpo per la dea Teti e Peleo re di Ftia, la dea Eris (=Discordia), per vendicarsi di non essere stata invitata, gettò tra i presenti una mela d’oro, con su scritto: “Per la più bella.” Subito le dee Hera, Atena e Afrodite litigarono tra loro perché ciascuna di esse, ritenendosi la più bella, presumeva di meritare il premio. Zeus, dunque, ivitò le dee a lasciarsi giudicare da Paride, figlio di Priamo, re di Troia, che aveva la fama di giusto giudice. Recatesi dal principe troiano, ciascuna faceva promesse per aggiudicarsi la mela d’oro. Hera promise che sarebbe diventato il più potente tra gli uomini, Atena promise che sarebbe diventato il più sapiente, infine Afrodite promise l’amore della più bella donna del mondo. Paride consegnò il premio alla dea dell’amore. Giunto come ambasciatore a Sparta, dove regnava Menelao, marito di Elena, con l’aiuto della dea Paride rapì la principessa spartana. A causa di un tale oltraggio Menelao e suo fratello Agamennone, re di Micene, preparano la spedizione militare di tutti i sovrani delle varie città greche contro la città di troia, in Asia. Agamennone fu il capo della spedizione, oltre a lui parteciparono Nestore re di Pilo, Ulisse re di Itaca, Achille re di Ftia (figlio di Peleo e Teti), Diomede re di Argo e molti altri.


Trama dell’Iliade.
L’Iliade è un poema epico di 15.693 versi divisi in 24 canti, che ha per argomento l’ira di Achille figlio di Peleo, intorno alla quale ruota una serie di episodi che occupano lo spazio di 51 giorni durante il decimo anno di guerra. Il troiano Crise, sacerdote di Apollo, si reca all’accampamento greco portando un ricco riscatto per farsi restituire la figlia Criseide, rapita e divenuta schiava di Agamennone, che però non la restituisce, anzi scaccia con modi aspri l’anziano padre. Apollo, adirato per l’offesa a Crise, suscita la peste nell’accampamento greco. Achille sollecita l’indovino Calcante a rivelare ai Greci riuniti in assemblea quale dio ha scatenato la peste ed in che modo placarlo. Alla richiesta di restituzione di Criseide, Agamennone reagisce pretendendo come risarcimento Briseide, la donna catturata da Achille. In quell’epoca infatti il bottino di guerra, compresi i prigionieri, era considerato espressione dell’onore militare, quindi per Agamennone perdere una parte di bottino era umiliante, equivaleva a perdere parte del proprio onore d’innanzi a tutti gli altri Greci. Achille, per intervento di Atena, è costretto a cedere la sua Briseide al suo capo, Agamennone, ma sentendosi pubblicamente umiliato prova un’ira infinita, per cui si ritira nella sua tenda senza più partecipare alle battaglie contro i Troiani, che di conseguenza risultano ripetutamente vittoriosi. A questo punto Patroclo indossa l’armatura di Achille per suscitare tra i nemici paura e sconcerto. Il piano funziona: i Troiani retrocedono temendo che Achille sia tornato a combattere, tuttavia Patroclo viene ucciso da Ettore, figlio di Priamo. Disperato, dopo a ver ricevuto dalla madre Teti una nuova armatura forgiata dal dio Efesto, Achille ritorna a combattere per vendicare la morte dell’amico. I Troiani si rifugiano entro le mura della città, mentre Ettore, rimasto da solo a combattere, è ucciso senza pietà da Achille, che fa scempio del suo cadavere trascinandolo dietro al proprio carro da guerra intorno alla città, sotto gli sguardi inorriditi dei Troiani. Infine il vecchio Priamo, scortato dal dio Hermes, si reca nottetempo alla tenda di Achille per riscattare il corpo del figlio e così ottiene una tregua di undici giorni per la celebrazione dei funerali in onore di Ettore. Con la sepoltura dell’eroe troiano si conclude il poema.



L’Odissea:  il titolo e il nome del protagonista.
L’Odissea è un poema epico di poco più di 12.000 versi, divisi in 24 canti. Essa trae nome dal protagonista Odisseo, altro nome di Ulisse. Il nome doppio, come nel caso di Odisseo/Ulisse, si spiega con diversi popoli che si trovano a pronunciarlo. Odisseo/Ulisse non è un personaggio di origine greca. Anche se si trova nella mitologia della Grecia antica, in realtà è stato inventato da un popolo che ha abitato la Grecia in età preistorica, cioè prima che vi immigrassero i Greci, i quali, ascoltato il nome dell’eroe in una lingua a loro sconosciuta, lo riportavano variamente in greco: talvota Odisseo, talvolta Ulisse. La loro incertezza infatti deriva dalla ripetizione di suoni caratteristici di una lingua precedente. Il nome di Ulisse non ha alcun significato in greco antico. Tuttavia l’autore dell’Odissea ha ritenuto –erroneamente- di poter mettere il nome in relazione con il verbo greco odyssomai, che vuol dire odiare/adirarsi. Il nome fu infatti suggerito dal nonno Autolico che, essendo stato un briccone, era particolarmente odiato.

La trama dell’Odissea.
L’argomento dell’Odissea è il ritorno di Ulisse al suo regno e alla sua famiglia. Un poeta della tradizione orale avrebbe raccontato in poche migliaia di versi tutto il viaggio, durato ben dieci anni, dalla fine della guerra di Troia fino al ritorno ad Itaca. L’autore dell’Odissea invece compie qualcosa di straordinario: racconta dapprima le avventure di Telemaco alla ricerca del padre, distribuite nell’arco di 31 giorni, poi gli ultimi 28 giorni del viaggio di Ulisse, incastrandoci in mezzo il racconto di tutte le avventure precedenti narrate dal protagonista stesso al re Alcinoo. Persino la distribuzione dell’argomento nei vari canti non appare casuale ma presuppone l’uso della scrittura anziché dell’improvvisazione orale. Infatti il poema risulta diviso in due parti: nei canti I-XII sono raccontati i viaggi di Telemaco e Ulisse, nei canti XIII-XXIV si narra l’arrivo dell’eroe ad Itaca e la conseguente vendetta sui Proci.
Canti I-XIII Dieci anni dopo la fine della guerra di Troia, tutti i sovrani greci sono già rientrati nelle loro città, tranne Ulisse, trattenuto nell’isola di Ogigia dalla ninfa Calipso. Durante un concilio degli dei, nonostante l’opposizione di Posidone che ha in odio l’eroe, Atena ottiene da Zeus che Ulisse possa tornare in patria. Pertanto Hermes è inviato a Calipso per ordinargli di lasciar partire l’eroe, mentre Atena stessa si presenta a Telemaco per convincerlo a partire alla ricerca di suo padre Ulisse. Pe rfar questo egli deve superare l’opposizione dei Proci, nobili delle isole circostanti, che, convinti della morte del sovrano di Itaca, occupano il palazzo reale, ne consumano le ricchezze e pretendono che Penelope sposi uno di loro. Per guadagnare tempo la regina ha promesso che si risposerà dopo aver terminato il sudario per l’anziano Laerte, ma di notte lo scuce quanto ha cucito di giorno. Intanto Telemaco si reca da Nestore a Pilo e da Menealo a Sparta. Nello stesso tempo grazie ad una zattera, Ulisse lascia l’isola di Calipso ma posidone scatena contro di lui una tempesta. L’eroe fa naufragio nell’isola di Scheria, la terra dei Feaci, dove viene rinvenuto da Nausicaa, figlia di Alcinoo re di quei luoghi. Alcinoo offre all’eroe una magnifica ospitalità, pur non conoscendo la sua identità. Viene riconosciuto dopo che si è commosso ascoltando la storia della caduta di Troia cantata dall’aedo Demodoco. Allora Ulisse, dopo aver svelato la sua identità, racconta al re e agli altri nobili feaci tutti i pericoli che ha affrontato dalla fine della guerra sino al suo arrivo nell’isola di Scheria. In particolare racconta come, pur essendo partito da Troia con 12 navi, abbia perduto uno dopo l’altro i cari compagni durante varie sciagure: l’incontro con Polifemo, la sosta nell’isola galleggiante di Eolo il custode dei venti, i Lestrigoni antropofagi, la maga Circe, la discesa nell’Ade, cioè nel regno dei morti per consultare l’anima dell’indovino Tiresia a proposito del viaggio da proseguire, le sirene, il passaggio tra le mostruose Scilla e Cariddi, le mucche del dio Sole nell’isola di Trinachia, ecc. Alcinoo, commosso dal suo racconto, gli promette che lo scorterà sino ad Itaca.

Canti XIII – XXIV: Ulisse approda ad itaca, dove Atena, per renderlo irriconoscibile, lo trasforma in vecchio mendicante. L’eroe trova lavoro presso il porcaio Eumeo, nella cui capanna ha la possibilità di incontrare il figlio Telemaco ed organizzare insieme a lui la vendetta sui Proci. Recatosi alla reggia, è riconosciuto dal fedele cane Argo, che muore poco dopo, e dalla nutrice Euriclea, che lo identifica da una cicatrice su una gamba. Il giorno dopo, su consiglio di Atena, la saggia Penelope, la fedele moglie di Ulisse, annunzia ai proci che sposerà chi tra loro con l’arco di Ulisse riuscirà a scagliare una freccia attraverso i fori di dodici scuri allineate. Dopo che tutti i pretendenti hanno fallito nella prova, il falso mendicante, tra gli scherni dei presenti, ottiene di partecipare alla gara e subito scaglia la freccia attraverso le scuri. A quel punto, con l’arco in mano, rivelatasi la sua identità, compie la strage dei proci con l’aiuto di Telemaco. Infine Ulisse si lascia riconoscere da Penelope, che può così riabbracciare lo sposo dopo venti anni di lontananza da casa. Il giorno seguente l’eroe ritrova il padre Laerte, che ormai alloggiava in aperta campagna, e così lo riconduce alla reggia.
Nota sui viaggi di Ulisse.


Nei canti IX-XII Ulisse descrive ad Alcinoo tutte le sue peregrinazioni da Troia sino all’isola di Scheria. All’inizio del viaggio Ulisse si trova in un mondo verosimile, abitato da popoli come i Ciconi, non appaiono creature mostruose, si tratta certamente delle coste della Grecia che si affacciano sul mar Egeo. Giunto a Capo Malea, le navi di Ulisse sono sconvolte da una tempesta insolitamente lunga, di nove giorni, dopo i quali ci si trova in un mondo immaginario, popolato di creature e località inverosimili: Ciclopi, Sirene, un’isola galleggiante, la maga Circe, le rocce Simplegadi, Scilla e Cariddi, l’isola dei Feaci, ecc. Gli antichi Greci tentarono di localizzare tali luoghi nella realtà. Alcune di queste identificazioni sono rimaste famose: Circe al Circeo, Scilla e Cariddi nello Stretto di Messina, Polifemo in Sicilia, l’isola di Eolo in Lipari. Tuttavia tra gli scrittori antichi non c’è mai stato pieno accordo in proposito. Gli studiosi moderni, ad una lettura attenta del poema, si soono resi conto che in verità dopo capo Malea Ulisse e i compagni si trovano catapultati in un mondo immaginario che non ha alcun legame con la geografia reale. D’altronde un’isola galleggiante come quella di Eolo poteva venire a trovarsi in qualsiasi angolo del mondo! Il regno di Ulisse, invece, composto dalle isole Itaca (sede del palazzo reale), Dulichio, Same e Zacinto, è un luogo reale, ma la descrizione di Omero non corrisponde esattamente alla realtà geografica, perché probabilmente il poeta non aveva mai visto tali località di persona. Tuttavia proprio nell’isola che tuttora si chiama Itaca, l’archeologo Papadopoulos dell’Università di Ioannina, ha riportato alla luce un palazzo reale del XIII secolo a.C.





Heinrich Schliemann
Heinrich Schiemann fu un uomo d’affari ed archeologo tedesco che, compiendo i primi scavi archeologici nelle località citate da Omero (Troia, Micene e Tirinto), dimostrò che l’Iliade si fonda su fatti veri, anche se rielaborati dalla fantasia del poeta.
Prima degli scavi: Schliemann nacque nel 1822 a Neubuckow, una località della Germania settentrionale. Il padre, Ernst, un pastore evangelico, trasmise al piccolo Heinrich l'amore per le civiltà passate, leggendo i versi dei poemi omerici, fino ad allora da tutti ritenuti fantasiosi. A sette anni gli venne regalato un libro di storia per bambini, rimase impressionato dall'illustrazione di Troia in fiamme ed espresse il desiderio di ritrovare quelle mitiche mura. Quando Heinrich aveva nove anni, la madre morì dando alla luce il nono figlio. Venne affidato ad uno zio perché frequentasse la scuola in un’altra città, ma per mancanza di denaro il padre smise di pagargli gli studi e pertanto Heinrich dovette mettersi a lavorare come garzone di bottega. Dimenticò quel poco che aveva imparato. Un giorno fu colpito dalla bellezza di alcuni versi recitati da un ubriaco, il figlio di un pastore locale espulso da scuola per cattiva condotta. Schliemann racconta di avere speso gli ultimi centesimi che gli rimanevano per comprare da bere al ragazzo, purché ripetesse i versi recitati che lo avevano profondamente colpito tanto da fargli desiderare di imparare il greco antico. In seguito scoprì che erano versi dell'Iliade e dell'Odissea. A 19 anni si imbarcò per il Venezuela, ma la nave naufragò presso le coste olandesi. Heinrich, salvatosi a stento, fu costretto così a rimanere in Olanda. Trovò impiego presso una ditta commerciale ad Amsterdam e cominciò, nel tempo libero, a dedicarsi allo studio delle lingue: l’inglese, il francese, l’italiano, il portoghese, il russo, tanto che un’altra ditta lo inviò in Russia, dove ebbe tanta fortuna da aprire una filiale a Mosca. Nel 1850 si stabilì in America per dedicarsi al commercio di preziosi, arricchendosi enormemente. Tornato in Russia, sposò Ekaterina Petrovna Lysina. A 34 anni era ormai un uomo ricchissimo e conosceva ben 12 lingue. Il denaro non era più lo scopo della sua vita. Aiutato da un arcivescovo ortodosso, iniziò lo studio del greco antico per leggere omero nella lingua originale. Frattanto si ritirò dal lavoro per vivere di rendita e intraprese un lungo viaggio intorno al mondo durato due anni. Nel 1866 si stabilì a Parigi per studiare archeologia alla Sorbona, la più illustre univerisità francese. Pur essendo ricchissimo, provava una profonda solitudine e sentiva di dover ancora trovare uno scopo alla sua vita: decise di mettersi alla ricerca della città di Troia. Recando sempre con sé l’Iliade, di cui conosceva interi brani a memoria, partì per la Turchia. Intanto nel 1869, divorziatosi dalla prima moglie, sposò la greca Sofia Engastroménos, una parente del suo maestro di greco antico.
Gli scavi di Troia: Schliemann era convinto che la città di Troia si trovasse nella collina di Hissarlik, in Turchia. Tra il 1871 e il 1873 intraprese la prima grande campagna di scavi. Seguendo le indicazioni di Omero, il 4 agosto 1872 Schliemann rinvenne vasellame, utensili, armi e persino le mura e le fondamenta non di una sola città, quella di Priamo, ma di ben nove città, costruite l'una sulle rovine dell'altra. Schliemann identificò i resti della città omerica nella cosiddetta “città bruciata” (secondo strato), dove trovò il cosiddetto “tesoro di Priamo”. Il racconto della scoperta è rimasto famoso: il rinvenimento al mattino presto di un grande contenitore di rame nascosto sotto un muraglione, l’oro che brilla in mezzo alla terra, l’allontanamento degli operai, lo scavo solitario ed affannoso insieme alla moglie Sofia che avvolge gli ori in uno scialle e li nasconde in una cesta: diademi, coppe, bracciali, collane, orecchini… Il tesoro fu clandestinamente trasferito ad Atene e poi donato alla Germania dopo un lungo processo intentatogli dal governo turco. Conservato al Museo di Berlino, scomparve nella Seconda Guerra Mondiale, nei giorni in cui Berlino era occupata e devastata dai soldati Russi ed Americani (1945), per poi riapparire nel 1993 al Museo Puskin di Mosca. Dalla Germania arrivarono a Mosca alcuni illustri specialisti: essi assistettero alla riapertura delle casse contenenti gli ori troiani, che essi avevano creduto scomparsi per sempre. Nel 1996 si svolsero senza esito trattative per la loro restituzione alla Germania, ma i direttori dei musei russi dichiararono che dovevano essere trattenuti quali compenso per i danni di guerra nazisti alle città della Russia. Il tesoro è databile alla prima età del Bronzo, dunque è di circa 1.000 anni più antico della guerra di Troia, mentre la Troia omerica è stata individuata da C. Blegen, che ha diretto la missione americana, nello strato VIIa, databile al 1300-1200 a.C. circa.
Gli scavi a Micene e a Tirinto: Nel 1874 Schliemann cominciò ad interessarsi di Micene, guidato ancora una volta dalla lettura delle fonti antiche. Omero celebrava, infatti, una Micene ricca d’oro; mentre Pausania, uno scrittore greco del II sec. d.C., descriveva in dettaglio le tombe degli eroi. Leggendo Pausania, Schliemann riconobbe le sepolture dei re micenei. Egli trovò un circolo sepolcrale con cinque tombe a fossa, contenenti alcune maschere d’oro, che riconobbe come i sepolcri degli Atridi, la famiglia reale di Micene. In realtà si trattava di sepolture più antiche, appartenenti ad una civiltà precedente a quella narrata da Omero. Tra il 1884 e il 1885 Schliemann si spostò a Tirinto. Anche in questo caso la sua guida fu Omero, che racconta nell’Iliade che nella città regnava Diomede “potente nell’urlo di guerra”. Lo scavo, condotto ancora con Wilhelm Dörpfeld, portò a liberare la cittadella “ciclopica” mettendo in luce i resti di un palazzo miceneo.  
La morte colse Schliemann a Napoli nel 1890, mentre aspettava l'autorizzazione per eseguire nuovi scavi nell'area di Pompei. Fu sepolto ad Atene. Si concludeva così la storia del povero garzone che, credendo ciecamente nei poemi di Omero, restituì alla storia le mura di Troia.
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La maschera d'oro di Agamennone


Fasi storiche della città di Troia

Antica città, capitale della Troade, situata a circa 6 km dalla costa nell’angolo nord-occidentale della Turchia, presso lo sbocco dei Dardanelli, in un punto strategico all’incrocio dei passaggi dall’Asia all’Europa, all’ingresso del Mar Nero, in una regione di miniere di argento. La leggenda indica come fondatore della città l’eroe Dardano e come costruttori della cinta muraria gli dei Apollo e Posidone.
·         I strato (3000 a.C.): villaggio dell'Età del Bronzo Antico: utensili in pietra, abitazioni dalla struttura molto semplice.
·         II strato (2500 - 2000 a.C.): piccola città monumentale, circondata da mura con porte enormi, un palazzo reale, e case in mattoni crudi distrutte da un incendio. Schliemann suppose che si trattasse della città di Priamo. A questo strato appartiene il cosiddetto “Tesoro di Priamo.”
·         III - IV - V strato (2000 - 1500 a.C.): tre città distrutte e ricostruite una dopo l’altra in poco tempo.
·         VI strato (1500 - 1250 a.C..): grande città edificata su terrazze, fortificata da alte e possenti mura, di enormi blocchi, con torri e porte. La distruzione della città dovrebbe essere avvenuta intorno al 1250 a.C., forse a causa di un forte terremoto.
·         VII a-b strato (1250   1200/1100 a.C. ): la città, immediatamente ricostruita (VII a), ebbe vita breve, perché fu distrutta intorno al 1200 da uno spaventoso incendio. I superstiti ricostituirono un insediamento nuovamente dato alle fiamme qualche tempo dopo (VII b), cioè intorno al 1.100 a.C. Dopodichè per circa 400 anni la collina appare spopolata. L’archeologo Blegen ha identificato in “Troia VII a” la città omerica. Frattanto, nello stesso periodo in cui i Greci colonizzavano il territorio e la collina della città antica, un poeta greco concepì l’Iliade.
·         VIII strato (VII - I sec. a.C.): città greca, distrutta nel I secolo a.C.
·         IX strato (I-V sec. d.C. ): città romana. Dopo il definitivo abbandono, si persero le tracce della città.

Gli scavi di Troia, dopo quelli di Blegen interrotti nel 1938, sono stati ripresi nel 1984 da Manfred Korfmann, dell’Università di Tubinga (Germania). È stato scoperto che la città di Troia VI era molto più grande di quel che si fosse pensato ed inoltre era difesa da un lunghissimo fossato che la circondava su tutti i lati.



Disegno ricostruttivo di Troia VII A, la città che i Greci, secondo il mito,
potrebbero aver distrutto intorno al 1250 a.C.

Storicità della guerra di Troia

Gli antichi Greci hanno variamente indicato le date della guerra di Troia, date che si collocano tutte all’incirca tra 1300 e 1200 a.C. La data più antica proposta per la caduta della città corrisponde al 1334 a.C. (Duride di Samo, Timeo di Taormina), la data più recente al 1150 a.C (Democrito di Abdera), una data considerata valida da molti scrittori antichi è il 1184 a.C. (Eratostene di Cirene, Diodoro Siculo, Dionigi di Alicarnasso, ecc.). Partendo dalle date ipotizzate dagli antichi e dalla totale distruzione della città intorno al 1200 a.C., Blegen ha giustamente ritenuto di riconoscere la città descritta da Omero nel settimo livello (VII a). Se la distruzione fosse stata causata da fattori naturali o accidentali, la città sarebbe rinata grande e potente come la precedente. Invece rinacque un modesto insediamento (Troia VII b). Comunque proprio a quella data anche i palazzi reali dei Greci a Micene, Tirinto, Pilo, Iolco, ecc. furono distrutti da un incendio per non essere mai più ricostruiti. Con il crollo dei palazzi, tramontò per sempre la civiltà micenea. Dunque risulta incredibile che gli eroi greci possano aver distrutto la città di Troia nel periodo in cui i loro stessi regni sparivano per sempre tra le fiamme. Se i Greci di età micenea hanno combattuto quella famosa guerra, essa non può essersi verificata intorno al 1200 a.C. né può aver riguardato la città identificata da Blegen. Per qualche tempo ancora, esistette la piccola Troia VII b, la cui scomparsa intorno al 1100 a.C non può essere opera dei Greci, perché i loro regni erano già scomparsi da un secolo. Il mito, dunque, conserva intatta una sua parte di mistero che non si può restituire alla storia: la guerra di Troia fu realmente combattuta dai Greci?

Sconvolgimenti nel Mediterraneo Orientale intorno al 1200 a.C.


Intorno al 1200 a.C. acceddero nel Mediterraneo Orientale alcuni eventi sconvolgenti: distruzione della città di Troia, caduta dell’Impero Hittita in Asia Minore, crollo della civiltà micenea in Grecia, distruzioni in Siria e a Cipro, indebolimento dell’impero egiziano. A far luce su questi eventi sono due fonti scritte egizie: sotto il faraone Merenptah (1230 a.C. ca.) alcune popolazioni mediterranee non ben identificate si unirono all’invasione dei libici nel Delta occidentale del Nilo; poi sotto Ramses III (1190 a.C. ca.) un più consistente gruppo di invasori, i cosiddetti “Popoli del Mare,” arrivò alle soglie del Delta orientale del Nilo dopo aver travolto i regni dell’Anatolia, Cipro e la Siria. Gli studi più recenti sembrano dimostrare che a provocare un tale sommovimento di popoli con conseguente caduta di città e imperi sia stato un prolungato periodo di siccità e carestie. Finkelstein ha trovato la soluzione all’enigma storico studiando particelle di polline estratti dal fondale del lago di Tiberiade: a mettere in crisi quelle civiltà fu una serie di gravi siccità nell’arco di 150 anni, tra il 1250 e il 1100 a.C. circa. Intorno al 1250 a.C., gli scienziati hanno notato un netto calo della presenza di querce, pini e carrubi, tradizionale flora del Mediterraneo, e un aumento delle piante da clima semiarido. Si nota in particolare una diminuzione degli ulivi, segno di una crisi dell’agricoltura. Il calo dei raccolti costrinse probabilmente alcune popolazioni che abitavano nelle regioni settentrionali a migrare in cerca di cibo, magari scacciando altre comunità che a loro volta si spostarono per terra e per mare. Questa reazione a catena suscitò guerre e distruzioni e mise in crisi il delicato sistema commerciale del Mediterraneo orientale.


Micene, la città di Agamennone.

"Iliade di Ginevra" codice manoscritto dell'Iliade conservato alla Biblioteca Nazionale di Ginevra.
Fu realizzato a Costantinopoli nel XIII secolo. Contiene note di commento (scholia) a margine e spiegazioni del testo interlineari. Fu utilizzato da Henricus Stephanus per l'edizione a stampa del 1566.

2 commenti:

  1. Ho letto tutto quello che c' era scritto riguardo l' Iliade e l' odissea.
    ci può consigliare una versione di quei libri più adatta alla nostra età e quindi un po' meno impegnativa da leggere?

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    1. Ciao Riccardo! non ti consiglierò dei banali riassunti in prosa come ne circolano tanti nelle librerie e biblioteche. Quel tipo di semplificazione impoverisce l'epica privandola di ogni fascino. Esistono però due eccellenti traduzioni italiane dei poemi omerici, che hanno il pregio di essere fedeli al testo originale e di essere scritte in un italiano accessibile ai bravi studenti come te. In ogni caso si tratta di una lingua italiana poetica, per cui potrai trovare qualche nuovo termine. Tanto meglio! sarebbe l'occasione giusta per ampliare la propria conoscenza e per affrontare con più facilità le poesie che studierai in seguito. Per l'Iliade si tratta della traduzione di Calzecchi-Onesti nell'edizione Einaudi; invece per l'Odissea consiglio la traduzione di Aurelio Privitera nell'edizione Mondadori. Può darsi che il tuo libro di testo abbia inserito brani tradotti da questi grecisti. Potresti controllare...

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