La Preistoria è quel lungo
periodo in cui l’umanità è esistita prima dell’invenzione della scrittura, dopo
la quale invece inizia la storia. Dunque mentre la storia è nota attraverso le
fonti scritte dagli antichi, la preistoria è nota esclusivamente da fonti
materiali, che nelle età più remote erano di pietra. Perciò la preistoria è
suddivisa in tre fasi a seconda dell’evoluzione degli strumenti litici:
Paleolitico (=età della pietra antica), Mesolitico (=età della pietra di mezzo)
e Neolitico (=età della pietra nuova). Le date di questi periodi variano da una
zona all’altra perché le comunità antiche non si sono mai evolute tutte insieme
contemporaneamente.
Un momento fondamentale è
stato il “grande balzo in avanti” circa 70.ooo anni fa, quando per motivi
sconosciuti la specie umana moderna (Homo
Sapiens Sapiens) abbandonò l’Africa centro-orientale, suo luogo di origine,
per migrare negli altri continenti, raggiungendo l’Australia già 60.ooo anni
fa, l’Europa 40.ooo anni fa ed infine l’Ameirica più di 15.ooo anni fa.
L’ultimo luogo della terra ad essere stato colonizzato dall’uomo è l’Isola di
Pasqua, nell’Oceano Pacifico, circa 1.5oo anni fa.
Nella preistoria le
piccole comunità umane vivevano di caccia e raccolta dei frutti selvatici, cioè
di ciò che di commestibile si trovava in natura; pertanto erano costrette a spostarsi,
secondo le stagioni, in funzione del cibo da procurarsi. La preistoria tramonta
quando l’uomo si accorge che gli animali e le piante si possono addomesticare,
inventando così l’agricoltura e l’allevamento. Una tale scoperta rese possibile
la produzione di grandi quantità di cibo, per cui il popolamento aumentò
enormemente. Infatti mentre un ettaro di territorio selvatico nutriva un solo
cacciatore-raccoglitore preistorico, un ettaro di terra coltivata nutriva un
centinaio di contadini. Ciò rese possibile la nascita di villaggi e poi di
città stabili e l’uomo, dapprima nomade, divenne sedentario.
L’agricoltura non apparve
in tutto il mondo contemporaneamente ma fu inventata per la prima volta in
Medio Oriente circa 11.ooo anni fa, all’inizio del Neolitico, da dove si è
presto diffusa in Europa. Agricoltura ed allevamento si sono sviluppati
indipendentemente anche in altre parti del mondo in epoche successive: 10.ooo
anni fa in Cina, 7.ooo anni fa in Africa, 5.ooo anni fa in America. Perché la cosiddetta Mezzaluna fertile, cioè l’area
tra Mesopotamia ed il Mediterraneo (=Iraq, Siria, Turchia, Giordania) ha avuto un tale primato nel mondo? Due
fattori hanno fatto sì che il territorio dalla Valle dell’Indo fino all’Egitto
e l’Europa fosse la culla delle civiltà più antiche ed avanzate: 1) è stata la
terra d’origine della stragrande maggioranza di piante coltivabili ed animali
da allevamento; 2) è una terra interamente collocata nella fascia temperata,
caratterizzata da un clima favorevole alla diffusione di persone, scoperte e
invenzioni. Partendo da un vantaggio ambientale, le civiltà dei Sumeri e degli
Egizi furono le prime a sviluppare una complessa organizzazione sociale.
Nelle
piccole comunità preistoriche tutti dovevano partecipare alla raccolta del cibo
nella foresta o alla caccia, per cui tutti erano uguali tra loro e il capo si
distingueva per spirito di sacrificio e generosità. Al contrario già nelle
prime città l’agricoltura e l’allevamento consentirono una tale produzione di
cibo da sfamare gruppi di persone specializzate in altre attività: artigiani,
militari, sacerdoti, burocrati, sovrani. Si formò così una gerarchia in cui
proprio le persone con maggiore potere sono quelle che faticano di meno per
nutrirsi, in quanto vivono del lavoro di masse di contadini che pagano le tasse
per contribuire alle spese dello Stato.
Proprio per la registrazione delle
tasse, inizialmente consegnate sotto forma di generi alimentari, nacque
l’esigenza della scrittura. In particolare la scrittura è apparsa autonomamente
in quattro località in tempi diversi: in Mesopotamia e in Egitto intorno al
3.ooo a.C., in Cina dopo il 2.ooo a.C ed in America Centrale nel 6oo a.C. negli
altri luoghi la scrittura è giunta per diffusione. Per esempio il nostro
alfabeto latino trae origine da quello greco, a sua volta ricavato da quello
fenicio, a sua volta derivato dalla schematizzazione di un limitato gruppo di
geroglifi egizi.
Osservazione: non è la superiorità culturale o
intellettiva a spiegare la maggiore
ricchezza e potenza di un popolo sugli altri ma le condizioni ambientali di
partenza. Non ci sono “razze” umane inferiori o superiori, infatti l’essere
umano appartiene alla medesima specie diffusa in tutto il mondo: Homo Sapiens Sapiens.
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L'introduzione dell'agricoltura in Europa fu opera di popoli invasori provenienti dal Vicino Oriente (= attuali Turchia ed Iraq). Cliccare sul seguente link:
http://www.nationalgeographic.it/popoli-culture/2010/11/11/news/scoperti_i_primi_contadini_europei-135447/
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Introduzione allo sudio della storia
1. Definizione di
“storia.”
La storia è la spiegazione
delle cause degli avvenimenti realmente accaduti nel passato. Essa risponde
alla domanda: “Perché è successo tale evento?” Quindi la storia è qualcosa di
più della semplice cronaca, che invece è solo racconto di fatti accaduti.
2.a. Inizi della storia.
La storia, intesa come
fatti che si possono raccontare e spiegare, è iniziata in tempi diversi nelle
diverse parti del mondo. Essa infatti comincia con l’invenzione della
scrittura, che è lo strumento che consente di tramandare le informazioni a
persone di altri luoghi e di epoche successive. La scrittura è stata inventata
autonomamente, cioè senza che il suo sistema venisse copiato, solamente in
quattro luoghi:
-
3.000
a.C. circa: scrittura cuneiforme dei Sumeri, in Mesopotamia, attuale Iraq.
-
3.000
a.C. circa: scrittura geroglifica degli Egizi, in Egitto.
-
1.700
a.C. circa: scrittura cinese, in Cina, passata per varie evoluzioni, è ancora
in uso .
-
600
a.C. circa: scrittura degli Zapotechi, in America Centrale, attuale Messico.
Tutti gli altri popoli
hanno acquisito la scrittura copiandone l’uso da un’altra civiltà. Per esempio
noi usiamo l’alfabeto latino, cioè quello dell’antica Roma, ma a loro volta gli
antichi Romani adottarono l’alfabeto dai Greci, che l’avevano ricavato dai
Fenici, i quali l’avevano inventato partendo da alcuni dei tantissimi geroglifi
egizi.
2.b. Quando inizia la
storia in Italia
L’Italia entra nella
storia, cioè adotta l’uso della scrittura, nell’VIII sec. a.C. Il più antico
testo scritto trovato in Italia è la cosiddetta Coppa di Nestore, una coppa per
il vino, fatta di ceramica, trovata dagli archeologi in una tomba greca
dell’isola di Ischia, l’antica Pithekussai, che fu il primo insediamento greco
in Italia. Sulla coppa, risalente al 720-700 a.C., è stata incisa una poesia
che dice: “La Coppa di Nestore era certamente ottima per berci, ma chiunque berrà
da questa coppa sarà preso dal desiderio della ben-coronata Afrodite.” Nestore,
re di Pilo, citato nella poesia è un personaggio della guerra di Troia, che aveva
una coppa di bronzo pesantissima, decorata con due colombe d’oro.
4. Origini
della civiltà occidentale.
Uno o più popoli
caratterizzati da una storia in comune, un modo di pensare, uno stile di vita,
una religione, tradizioni, un certo modo di vestirsi, di abitare, di cucinare,
formano una civiltà. Nel mondo varie e numerose civiltà sono apparse e
scomparse nel corso di migliaia di anni. Differenti civiltà esistono nel mondo
moderno. Gli Italiani appartengono alla cosiddetta civiltà occidentale,
estesa in ben tre continenti: l’Europa, l’America e l’Australia. La civiltà
occidentale è nata in Europa, da dove si è diffusa nei territori scoperti dagli
Europei in tempi recenti, come in America dopo il 1492 ed Australia dopo il 1770.
La storia studiata a scuola è solamente di ambito occidentale.
La civiltà occidentale è nata
in tre città del mondo antico, tutte di area mediterranea: Gerusalemme, Atene e
Roma.
Gerusalemme, in Israele,
ha lasciato in eredità alla civiltà occidentale la religione cristiana. Gesù, detto il Cristo, che tuttavia non
intendeva fondare una nuova religione ma semplicemente dimostrare agli esseri
umani l’infinito amore di Dio per loro, in questa città è stato crocifisso ed è
risorto all’epoca dell’imperatore romano Tiberio, probabilmente intorno al 30
d.C. Da tale città, dunque, gli apostoli, particolarmente Paolo di Tarso, sono
partiti per diffondere gli insegnamenti del Maestro nel mondo allora
conosciuto, che all’epoca era soggetto all’impero romano.
Atene, in Grecia,
fu una delle più ricche e potenti città greche dell’antichità. In questa città
sono nati o si sono incontrati molti intellettuali greci che hanno elaborato un
modo di concepire la realtà che tuttora caratterizza la civiltà occidentale. La
scienza moderna è di origine greca. I
popoli precedenti spiegavano i fenomeni naturali ricorrendo alla religione ed
alla mitologia. I Greci per primi in Europa diedero risposte basate
sull’osservazione diretta della natura. Tuttora si ricorda, ad esempio, Archimede
di Siracusa, geniale in molti ambiti. Greci furono alcuni dei più grandi geografi antichi, come Eratostene di
Cirene, che calcolò l’ampiezza del globo terrestre. Matematica e geometria sono nate in Grecia. Dapprima Sumeri,
Babilonesi ed Egizi studiavano i princìpi matematici solamente per scopi
pratici: delimitare i confini dei campi, costruire edifici, ecc. I Greci invece
per primi concepirono la matematica come un’arte del ragionamento, finalizzata
a se stessa, cioè disciplina autonoma rispetto alle esigenze pratiche. Anzi,
proprio in quanto arte del ragionamento, tale sapere fu chiamato “matematica,”
che in greco vuol dire “le cose imparate,” perché consisteva in ciò che
bisognava conoscere meglio. In Grecia è nata la psicologia, se pensiamo all’illustre filosofo Socrate che
predicava: Conosci te stesso! È
d’invenzione greca la filosofia, che
consiste nel porsi domande sul significato di tutto ciò che ci circonda e
infatti è una disciplina da cui si è diramata la scienza moderna. In Grecia è
nata la storia. Dapprima esistevano
solamente cronache, cioè liste di fatti avvenuti nel passato. Gli scrittori
greci, come Erodoto, Tucidide, ecc, sono stati i primi a chiedersi le cause
degli avvenimenti che essi stessi tramandavano. La ricerca storica è infatti
indagine sulle motivazioni reali e profonde degli eventi passati. La letteratura occidentale, cioè il nostro
modo di scrivere poesie, romanzi, opere di teatro è nata in Grecia. Tutti gli
scrittori infatti fanno parte di una tradizione letteraria, perché ciascuno che
voglia scrivere artisticamente deve conoscere le opere dei predecessori, sia
per imparare da loro sia per poi superarli nei contenuti e nello stile. Tutti
gli scrittori della civiltà occidentale hanno imparato a fare letteratura da
scrittori precedenti, a ritroso sino ai poemi omerici: l’Iliade (750 a.C.
circa) e l’Odissea (700 a.C. circa). Anche l’arte figurativa occidentale è di origine greca. Dapprima gli
scultori e i pittori eseguivano opere dettate dall’utilità: la rappresentazione
di un re vittorioso in battaglia per motivi propagandistici, la
rappresentazione di una divinità per motivi religiosi, il ritratto di un
defunto per ricordarlo dopo la morte, ecc. I Greci invece furono i primi in
Europa a creare statue e pitture per la loro stessa bellezza, cioè senza
utilità, proprio come i moderni artisti. Pochissime opere d’arte antica
esistono al giorno d’oggi, ad esempio i famosi Bronzi di Riace, eseguiti da
Onatas di Egina ed Agelada di Ago. Altra grande invenzione greca: la democrazia, cioè l’idea che le
decisioni riguardanti lo Stato possano essere prese dai cittadini che
democraticamente eleggono i loro rappresentanti. Prima di allora infatti il
potere spettava solo ai sovrani e ai nobili, privilegiati per nascita. Atene
sperimentò persino la democrazia radicale, quando i cittadini ebbero la
possibilità di intervenire direttamente sulle decisioni politiche partecipando
all’Assemblea.
Roma, in Italia,
ha contribuito alla formazione della civiltà occidentale prevalentemente per
gli aspetti pratici. L’architettura
moderna deriva da quella romana, specialmente per quanto riguarda l’uso
dell’arco e del cemento, tuttora molto usati. I romani escogitarono persino un
cemento impermeabile all’acqua, ottimo per costruire ponti, porti, acquedotti,
terme, ecc. Attraverso secoli di trasformazioni, le nostre leggi derivano direttamente da quelle romane, sin dalle leggi scritte
per la prima volta a Roma su dodici tavole di bronzo (450 a.C.). Persino i
Barbari ebbero ammirazione per le leggi romane e ne conservarono molte nei loro
regni costituiti dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente. I Romani hanno
poi realizzato qualcos’altro che ha condizionato per sempre la storia d’Europa:
le strade. Nessun grande impero può
esistere a lungo senza una rete stradale. Le strade sono necessarie per inviare
eserciti fino ai più remoti confini e per mettere tutte le città in relazione
con la capitale. Da Roma partivano numerose strade che si diramavano per tutto
l’impero. Da qui il famoso proverbio: tutte
le strade portano a Roma. La prima ad essere realizzata fu quella voluta dal
censore Appio Claudio Cieco nel 312 a.C. da Roma a Capua, che da lui fu detta
via Appia, poi prolungata fino a Brindisi. Tali strade sono importanti non solo
perché sono tuttora utilizzate, ma soprattutto perché hanno consentito la
crescita e la diffusione della civiltà occidentale. Infatti se non ci fossero
state le strade romane, il Cristianesimo sarebbe rimasto confinato in Israele e
forse sarebbe presto scomparso. Senza le strade romane tutte le conquiste del
pensiero greco (scienza, filosofia, letteratura, storia, arte, democrazia),
sarebbero rimaste limitate alla Grecia e, dopo alcuni secoli sarebbero state probabilmente
dimenticate. La nostra cultura, dunque, è anche il frutto di milioni di persone
che nell’antichità hanno percorso migliaia di chilometri di strade costruite e
restaurate dai magistrati dell’antica Roma.
Roma, Via Appia |
5. Le fonti della storia
Lo storico che voglia
ricostruire i fatti del passato e comprenderne le motivazioni ha a disposizione
vari tipi di fonti storiche: fonti scritte, orali, iconografiche e materiali.
-
Fonti scritte: qualsiasi testo scritto utile alla
ricostruzione del passato
-
Fonti orali: qualsiasi racconto orale, dunque
non scritto ma riferito a voce, utile alla ricostruzione del passato
-
Fonti iconografiche: qualsiasi immagine utile alla
ricostruzione del passato
-
Fonti materiali: qualsiasi monumento o oggetto
utile alla ricostruzione del passato.
6. L’utilità della storia
Lo studio della storia
soddisfa alcune delle tante curiosità dell’essere umano: sapere cosa è accaduto
nell’antichità, come si viveva nel passato, conoscere le cause dei fatti, ecc.
Inoltre il passato si studia per spiegare il presente. Tutte le caratteristiche
del mondo in cui viviamo hanno un’origine nel passato. In particolare la storia
ci rende consapevoli della nostra identità culturale: noi siamo quello che
siamo in quanto frutto del passato che ci ha preceduto. Inoltre una mente
allenata allo studio della storia è capace di ragionare sugli avvenimenti,
anche quelli della propria vita personale, e impara a distinguere più
facilmente le verità e le menzogne riferite da altri.
7. La cronologia
Poiché la storia è
spiegazione delle cause dei fatti del passato, risulta importante la
cronologia, cioè la precisazione del momento in cui è accaduto qualcosa.
Infatti la conoscenza delle date è fondamentale per sapere se un evento è
accaduto prima, dopo o contemporaneamente ad un altro. L’avvenimento storico
precedente può essere la causa di quello successivo, il successivo a sua volta
può essere la conseguenza di quello precedente, infine due fatti contemporanei
tra loro potrebbero avere una causa in comune.
Ogni cronologia ha bisogno
di un punto di partenza da cui contare gli anni. Tutte le civiltà hanno avuto
una propria cronologia. La nostra civiltà, che è quella occidentale, conta gli
anni dalla nascita di Gesù Cristo, per cui trovarsi nell’anno 2013 vuol dire
che sono trascorsi 2013 anni dalla nascita di Gesù. Gli anni precedenti alla
nascita di Cristo si contano a ritroso e riportano la sigla a.C. (= avanti
Cristo). L’uso di contare gli anni prima e dopo Cristo è iniziato col monaco
Dionigi il Piccolo, originario della Scizia (attuale Dobrugia, in Romania).
Egli nel 525, su incarico del Papa, inventò un sistema per calcolare le date
della Pasqua e per la prima volta enumerò gli anni dalla nascita del Messia. A
quel tempo, invece, si contavano gli anni dalla fondazione di Roma (=754 a.C.). Una caratteristica di
questa numerazione è che non
esiste l'anno zero: Dionigi infatti non
conosceva lo zero perché
sarebbe stato introdotto in Europa alcuni secoli dopo attraverso i numeri
arabi, che in verità sono di origine indiana. Dionigi stabilì quindi che l'anno
precedente all' anno 1 fosse
l'1 a.C. Tuttavia
la maggior parte degli storici moderni ritiene che Dionigi abbia sbagliato il
suo calcolo di alcuni anni, infatti pare che Gesù sia nato alcuni anni prima
della data stabilita dal monaco scita, probabilmente nel 7 o nel 6 a.C.
Nello studio della storia
spesso si fa riferimento ai secoli, cioè periodi di cento anni, indicati con
numeri romani. L’attuale secolo, ad esempio, è il XXI (ventunesimo), che
comprende gli anni dal 2001 al 2100. Le epoche (evi), invece, sono periodi di
molti secoli. Le epoche principali della storia occidentale sono le seguenti:
-
Evo
Antico: dall’apparizione della scrittura alla caduta dell’Impero Romano
d’Occidente (476 d.C.)
-
Evo
Medio: dalla caduta dell’Impero Romano d’occidente alla scoperta dell’America
(1492)
-
Evo
Moderno: dalla scoperta dell’America alla Rivoluzione Francese (1789)
-
Evo
Contemporaneo: dalla Rivoluzione Francese ad oggi.
Le
Origini di Roma
Le origini leggendarie di Roma.
Secondo la leggenda Enea,
scampato alla guerra di Troia, giunse nel Lazio, dove il re Latino gli concesse
in sposa la propria figlia Lavinia. Iulo Ascanio, figlio di Enea, fondò la
città di Alba Longa. Suoi discendenti erano i fratelli Numitore, re di Alba
Longa, ed Amulio, che usurpò il regno e costrinse Rea Silvia, figlia di
Numitore, a divenire sacerdotessa. Rea ebbe da Marte, dio della guerra, due
gemelli. Per mantenere il potere, Amulio condannò a morte Rea e abbandonò i
bambini su una cesta al fiume Tevere,
che li trasportò fino al fico ruminale, dove furono trovati ed allattati da una
lupa e poi adottati dal pastore Faustolo. Quando i due furono cresciuti, uccisero
il malvagio zio e riportarono Numitore sul trono, dopodichè decisero di fondare
una nuova città. Tuttavia litigarono per stabilire il nome e la sede della
città, infatti Remo la voleva costruire sul colle Aventino e Romolo sul
Palatino. Nello scontro Remo finì ucciso, per cui Romolo divenne il primo re di
Roma. Egli regnò per 40 anni.
Scoperto il Lupercale, la grotta in cui
-secondo gli antichi Romani-
Le origini di Roma secondo la ricerca storico-archeologica.
Gli antichi storici latini
tramandano che Roma fu fondata il 21 aprile del 753 a.C. Non è una data
casuale. Il 21 aprile nel calendario romano era la festa Palilia, sorta di
capodanno per i pastori romani, festa di Pales, misteriosa divinità pastorale,
da cui forse trae nome il colle Palatino. In realtà le colline di roma erano
già abitate dal IX sec. a.C. ma si trattava di semplici villaggi di capanne di
pastori e contadini. Nel 753 a.C. invece nasce Roma intesa come città-stato,
federazione dei villaggi sui famosi sette colli, in latino Septimontium.
L’archeologo Andrea
Carandini, dopo aver esaminato attentamente le opere degli storici antichi e
dopo venti anni di scavi condotti al centro di Roma ha ricostruito in che modo
è avvenuta la fondazione della città. Romolo
anzitutto cerca la benedizione degli dei sull’impresa. Si reca sul colle Aventino
per osservare il volo degli uccelli e ne deduce che Giove è favorevole sul
Palatino, dopodiché chiama dei sacerdoti etruschi per imparare i riti di
fondazione. Dal Palatino guarda verso il Monte Albano (oggi Monte Cavo, a circa
30 km da Roma), sede del Tempio di Giove Laziare, per invocare la benedizione
sul territorio da consacrare alla città, delimitato da un confine sacro,
quadrangolare, detto pomerium, la
cosiddetta Roma quadrata. Costruisce la sua capanna. Celebra i Palilia: si accendono fuochi su cui gli
uomini saltano per propiziare la nascita dei capretti. Scava una fossa votiva
contenente le primizie e manciate di terra dai luoghi di origine dei fondatori.
Suona il lituo e pronuncia il nome conosciuto e i nomi segreti di Roma. Traccia
il sulcus primigenius col capo velato, secondo il rito etrusco, servendosi di
una mucca, un toro ed un vomere dalla punta di bronzo, alzando l’aratro in
corrispondenza dei punti in cui sorgeranno le porte della città. Questo primo
solco tracciato definisce un limite inviolabile, su cui costruire le mura della
città. Si sono trovate le tracce di una delle prime porte della città: Porta
Mugonia, sotto la quale si è scoperta la tomba di una bambina sepolta con
alcune ceramiche, tra cui una tazza databile al 775-750 a.C., che conferma la
data tradizionale di fondazione intorno al 750 a.C
Altra impresa importante
di Romolo è stata la realizzazione del Foro, cioè la pubblica piazza, ai piedi
del Palatino, collocato in una piccola valle soggetta alle inondazioni del
Tevere, compresa tra due piccole alture, una con il santuario di Vulcano (il
fuoco della guerra), presso cui si riuniva l’assemblea degli abitanti più
nobili, l’altra con il santuario di Vesta (il fuoco sacro della città). Il foro
si trovava fuori dalle mura tracciate da Romolo, da cui il nome Forum che vuol dire fuori. Il re si trasferì nel foro, vicino al Tempio di Vesta, in
una grande capanna con un cortile dal quale osservava il cielo, in particolare
i fulmini all’alba, per interpretare la volontà degli dei. Anche sotto questa
capanna è stata trovata una fossa di fondazione con ceramiche del 750-725 a.C.
Qualche tempo dopo la capanna è stata monumentalizzata diventando la più
sontuosa di quell’epoca. È la prima Regia, primo palazzo reale di Roma.
Ai margini del foro c’è un
altro colle fondamentale nella formazione di Roma: il Campidoglio, con il
tempio di Giove Feretrio, anch’esso dell’VIII sec. a.C., dove si
custodiva il lapis silex,
probabilmente un’ascia preistorica con una pietra capace di suscitare
scintille, assimilata a Giove, dio dei fulmini e garante dei giuramenti.
Infatti se due uomini giuravano di rispettare un patto, il sacerdote uccideva
una scrofa con l’ascia dicendo che chi avrebbe tradito il giuramento avrebbe
fatto la stessa fine.
Romolo fu dunque il primo
ordinatore dello spazio romano definendo i limiti sacri della città e il luogo
del foro, ma fu anche ordinatore della società in quanto suddivise gli abitanti
in tre tribù, ciascuna suddivisa in dieci curie, per un totale di trenta curie,
che fornivano un senato di cento nobili ed un esercito di 3.000 fanti e 300
cavalieri. Infine fu ordinatore del tempo, perché stabilì un calendario lunare
di dieci mesi, che iniziava il 15 marzo con la festa di Anna Perenna e
terminava il 23 dicembre con la festa dei Terminalia, esprimendo probabilmente
nel ciclo di 274 giorni il tempo della gravidanza.
Spaccato ricostruttivo del primo Palazzo Reale di Roma, presunta residenza ufficiale di Romolo nel Foro Romano. |
Appunti
sull’Impero Romano
L’Impero Romano è stato
uno dei più grandi e potenti imperi nella storia dell’umanità. La sua storia si
divide in tre fasi a seconda dell’ordinamento politico:
A) Monarchia (753 a.C. -
509 a.C.)
B) Repubblica (509 a.C. -
27 a.C.)
C) Impero (27 a.C. – 476
d.C.)
Monarchia
(754 – 509 a.C.). All’inizio Roma era governata da un Re affiancato da un Senato
di nobili. I leggendari sette Re di Roma furono:
1)
Romolo: fondatore
della città il 21 aprile 753 a.C., ordinatore del territorio cittadino, della
società e del calendario romano. La nascita di Roma fu subito favorita dalla
sua collocazione strategica all’incrocio tra la via del sale, Via salaria, che
favoriva gli scambi tra la costa e l’Italia centrale, e la via che da nord a
sud consentivano gli scambi con Etruschi dell’Etruria e Greci dell’Italia
meridionale.
2)
Numa Pompilio:
il re-sacerdote, fondatore della religione romana.
3)
Tullo Ostilio:
il re-guerriero, che conquistò Fidene, Veio ed Albalonga.
4)
Anco Marcio:
il re mercante, costruì il primo ponte sul Tevere favorendo l’espansione della
città sul Gianicolo, fondò Ostia con il
suo porto alla foce del Tevere e promosse i commerci.
5)
Tarquinio Prisco:
primo re etrusco della città, che costruì edifici pubblici importanti come il Tempio
di Giove Capitolino, la Cloaca Maxima, il Circo Massimo per le gare con i
cavalli e edifici del Foro Romano.
6)
Servio Tullio:
secondo re etrusco della città, che compì il primo censimento e costruì le
cosiddette Mura Serviane che difendevano i Sette Colli da eventuali nemici.
7)
Tarquinio il Superbo:
terzo ed ultimo re etrusco della città. Si racconta che i suoi anni di regno
siano stati segnati da omicidi, violenze e terrore, per cui fu cacciato nel 509
a.C. a seguito di una rivolta guidata da Lucio Tarquinio Collatino e Lucio
Giunio Bruto, primi due consoli della Repubblica che fu istituita invece della
Monarchia.
Repubblica
(509 a.C. – 27 a.C.). In questa fase Roma era governata
-
da due Consoli, che guidavano l’esercito in
battaglia,
-
da trecento Senatori (poi portati a
novecento da C. Giulio Cesare), che prendevano le decisioni più importanti:
esaminare le leggi, redigere trattati internazionali, gestire il denaro
pubblico, ecc.
-
da dieci Tribuni della Plebe, che
rappresentavano gli interessi del popolo.
Durante la repubblica,
l’Impero Romano crebbe continuamente con la conquista di tutte le coste del
Mediterraneo, dalla penisola iberica (=Spagna) alla penisola anatolica
(=Turchia). La Repubblica terminò dopo che C. Giulio Cesare, conquistate le
Gallie (=Francia), compì un colpo di Stato divenendo dittatore a vita. Il colpo
di Stato conquista il potere con la forza delle armi. Per realizzare le sue
ambizioni Cesare dovette lottare contro il repubblicano Pompeo, che infine fu
decapitato in Egitto dal re Tolomeo XIII. Cesare a sua volta fu assassinato nel
44 a.C. da alcuni senatori e cadde ucciso proprio sotto la statua di Pompeo. Il
suo potere passò nelle mani del nipote Ottaviano Augusto, che nel 27 a.C. fu
eletto “principe” dal Senato dopo che aveva sconfitto Antonio e Cleopatra. Così
ebbe termine la Repubblica e iniziò l’Impero.
Impero
(27 a.C. – 476 d.C.). In questa fase Roma era governata da un imperatore, cioè
da un generale dell’esercito (infatti in latino imperator vuol dire “generale”) che spesso era anche console e
tribuno della plebe. Il Senato continuò ad esistere ma il suo potere risultò
molto ridotto. Gli imperatori molto amati, dopo la morte, ricevevano
l’apoteosi, cioè erano divinizzati: gli si dedicava un tempio e gli si
offrivano sacrifici; invece quelli molto odiati erano condannati alla damnatio memoriae: si cancellavano i loro ritratti e i nomi dai monumenti
pubblici perché venissero dimenticati.
Il primo imperatore fu Ottaviano
Augusto, il nipote di Giulio Cesare. Altri imperatori sono rimasti famosi
nella storia: Caligola per la sua follia; Nerone per l’incendio
di Roma e la prima persecuzione contro i cristiani; Vespasiano per il
Colosseo, inaugurato nell’anno 80 d.C., al tempo di suo figlio Tito,
famoso per la distruzione di Gerusalemme; Traiano, di origine iberica, per
aver portato l’impero alla sua massima espansione, per esempio con la conquista
della Dacia (=Romania) nel 106, raccontata sulla Colonna Traiana; Adriano
per l’architettura (Villa Adriana, Pantheon, ecc.); Marco Aurelio per il
suo diario (Colloqui con se stesso); Commodo,
l’imperatore-gladiatore, perché da lui, dopo il 180 d.C., inizò la decadenza
dell’impero; Didio Giuliano per aver comprato l’impero all’asta nel 193;
Settimio Severo, nord-africano, per aver realizzato su marmo la carta
topografica di Roma (Forma Urbis); suo figlio Caracalla, per aver dato
nel 212 d.C. la cittadinanza a tutti gli abitanti dell’impero; Aureliano
per le Mura Aureliane; Diocleziano per aver diviso l’impero in quattro
parti; Costantino, fodatore di Costantinopoli, per aver dichiarato nel
313 d.C. il cristianesimo religione tollerata; Massenzio, sconfitto da
Costantino, annegò nel Tevere, unico impertore romano di cui rimangono le
insegne imperiali; Giuliano l’Apostata per il ritorno al paganesimo; Teodosio
per aver imposto nel 380 d.C. il Cristianesimo come religione di Stato
dell’impero; Romolo Augustolo per essere stato l’ultimo imperatore
d’Occidente.
La
fine dell’Impero Romano
Già da secoli le popolazioni
barbariche di origine sia europea che asiatica premevano sulle frontiere
dell’Impero perché desideravano condividerne il benessere e le ricchezze.
Alcuni barbari volevano migrare nei territori romani e abitarvi come i Romani,
altri volevano compiere solo saccheggi e rapine. Finché l’impero rimase ricco e
potente, gli imperatori romani riuscirono a ricacciarli indietro, ma dal III
sec. d.C. in poi, con la decadenza, risultò sempre più difficile proteggere i
territori romani. Episodi particolarmente drammatici furono i saccheggi di Roma
del 410 d.C ad opera di Alarico, Re dei Visigoti, e del 455 d.C. ad opera di
Genserico, Re dei Vandali. Un altro disastro fu risparmiato all’Italia da papa
Leone Magno, che nel 452 d.C. convinse Attila, re degli Unni a tornare
indietro.
Dal IV sec. d.C. molti
barbari erano migrati pacificamente nei territori romani e si erano arruolati
nell’esercito imperiale, tuttavia i Romani li consideravano con sospetto e
disprezzo. Questa mancata integrazione dei barbari tra la popolazione locale fu
uno dei motivi della caduta dell’Impero Romano d’Occidente. Negli ultimi tempi
l’impero era diviso in Oriente e Occidente: la metà occidentale fu gradualmente
sottomessa dai barbari, la metà orientale durò ancora molti secoli e fu
conquistata dai Turchi nel 1453.
La metà occidentale cadde nel
476 d.C., quando l’ultimo imperatore Romolo Augustolo, un ragazzo di circa
quindici anni, rifiutò di concedere le terre agli Eruli in cambio del servizio
militare svolto. Per tale motivo Odoacre, acclamato re dai suoi soldati, esiliò
l’ultimo imperatore a Napoli e si autoproclamò governatore d’Italia spedendo le
insegne imperiali a Zenone, imperatore della parte orientale dell’impero, con
capitale a Costantinopoli. Poiché tutto ciò accadeva apparentemente nel
rispetto delle leggi romane, gli storici moderni dicono che l’Impero Romano
d’Occidente cadde senza fare rumore, cioè senza che i Romani di quel tempo se
ne rendessero conto.
Fonte: Capitolium (gruppo facebook) |
Lago di Nemi: le navi di Caligola
Il Colosseo
Il Colosseo: ricostruzione in 3D
Roma. Una delle due biblioteche del Foro di Traiano. Ricostrizione grafica di Marco Capasso. |
Video sul Pantheon
Video sulle Terme di Caracalla con ricostruzioni virtuali
Cristianesimo ed Impero Romano
Gesù
Nell’anno 753 dalla
fondazione di Roma, al tempo dell’imperatore Augusto, a Betlemme di Giudea
nacque Gesù, in seguito soprannominato il Cristo, che in greco vuol dire l’Unto
(in ebraico: Messia), nel senso di consacrato da Dio. Gesù, dunque, apparteneva
al popolo ebraico, l’unico popolo monoteista nell’Impero Romano. Secoli prima
gli antichi profeti della Bibbia avevano preannunciato la nascita del Messia,
un nuovo re di Gerusalemme, scelto da Dio, che avrebbe fondato un regno di
prosperità, pace e giustizia. All’epoca di Gesù il Messia era molto atteso,
come dimostrato dai manoscritti scoperti a Qumran, cosiddetti “Rotoli del Mar
Morto,” nascosti dalla setta degli Esseni, dove si parla dell’attesa di un Maestro
di Giustizia. Nello stesso tempo molti Ebrei si aspettavano semplicemente un
Messia di tipo politico, cioè un sovrano forte e capace che avrebbe reso lo
Stato di Israele libero e potente mediante la cacciata dei Romani.
La predicazione di Gesù,
anche se si accordava con le profezie bibliche, deluse molti contemporanei,
mentre altri ne furono entusiasmati. Gesù annunciava la realizzazione di un
regno non politico, bensì divino, il Regno di Dio. Spiegava che le persone
preferite da Dio sono proprio quelle che nella società appaiono perdenti: i
poveri di spirito, gli afflitti, i miti, quelli che vogliono la giustizia, i
misericordiosi, i puri di cuore, i costruttori di pace e quelli perseguitati
perché sono stati giusti. L’insegnamento di Gesù ribaltava la mentalità di quei
tempi: affermava che tutti gli esseri umani sono fratelli. Insegnava che
l’amore è più importante della religione. Addirittura incoraggiava ad amare
persino il nemico. Il Dio che Gesù ha mostrato al mondo è un amore senza
limiti, infinito ed eterno. Il Cristo sottolineò il suo messaggio anche con
gesti eclatanti, come la cacciata dei mercanti dal Tempio di Gerusalemme, con
cui condannava la gestione del santuario da parte dei sacerdoti del Sinedrio, i
quali, scandalizzati da tale predicazione e preoccupati da un’eventuale
reazione romana, con la complicità di Giuda, arrestarono e processarono Gesù in
piena notte con l’accusa religiosa di bestemmia. Desiderando eliminarlo, lo consegnarono
al procuratore romano Ponzio Pilato, che lo condannò alla crocifissione, pena
riservata ai ribelli contro l’impero, con un’accusa politica, riportata sulla
croce: “Gesù di Nazareth Re dei Giudei.”
Dopo la morte di Gesù.
Nascita del Cristianesimo.
Dopo la crocifissione, gli
apostoli, che dapprima apparivano spaventati ed incerti, come Pietro che tre
volte negò di conoscere Gesù, riferirono un fatto sconcertante: il Cristo era
risorto e le prime testimoni oculari erano donne, persone la cui testimonianza
nei tribunali dell’epoca non aveva valore. Prendendo coraggio dalle apparizioni
di Gesù, gli apostoli diffusero il più possibile il suo messaggio, senza più
temere né le autorità ebraiche né quelle romane. Nella predicazione si distinse
Paolo di Tarso, un ebreo che dapprima perseguitava i cristiani ma poi si
convertì a seguito di una visione, come egli stesso racconta in una delle sue
lettere (la prima ai Corinzi, paragrafo 15), dove si legge la più antica
testimonianza sulla resurrezione. Paolo diffuse in special modo il
cristianesimo tra i pagani in quanto non costrinse alcuno a divenire ebreo
prima della conversione cristiana. Sia Pietro che Paolo predicarono anche a
Roma, dove sorse ben presto una comunità cristiana importante. Infatti lo
storico latino Svetonio riporta che già nel 41 d.C. l’imperatore Claudio aveva
cacciato via dalla capitale molti che si ribellavano a causa di un certo Cristo.
Probabilmente Pietro e Paolo morirono nella prima persecuzione scatenata
dall’imperatore Nerone subito dopo l’incendio del 64 d.C., come tramandato
dallo storico Tacito. Sopra le tombe di questi martiri si trovano ora le grandi
basiliche di San Pietro in Vaticano e San Paolo fuori le mura. Durante l’impero
romano ci furono varie persecuzioni anticristiane, in particolare quelle di
Domiziano (95), Settimio Severo (200), Decio (250), Valeriano (257) e
Diocleziano (303).
Antitesi tra i Cristiani e
l’Impero
I primi Cristiani
sovvertivano tutti i valori su cui si fondava l’Impero Romano e perciò erano
disprezzati dai pagani. Mentre l’imperatore pretendeva onori divini per
rafforzare il suo ruolo, i Cristiani adoravano soltanto Dio e suo figlio Gesù.
Mentre l’economia romana era basata sul lavoro degli schiavi e tutta la società
era basata sulle differenze tra individui: uomini/donne, adulti/bambini,
ricchi/poveri, ecc, per i Cristiani tutti gli esseri umani sono fratelli in
quanto figli di un unico Dio. Mentre l’Impero traeva ricchezza e potenza dalla
sottomissione di numerosi popoli, i cristiani insegnavano: Ama il tuo nemico! In conclusione in un mondo caratterizzato da
sopraffazione e violenza, i Cristiani progettavano un amore rivoluzionario,
sconfinato, come quello di Dio. Pur vivendo nell’Impero Romano, essi sapevano
di essere già abitanti del Regno dei Cieli.
L’Incendio
di Roma del 64 d.C.
Tacito, Annali, XV, 38-44.
Tacito, Annali, XV, 38-44.
38. Si verificò poi un disastro, non si sa se
accidentale o per dolo del principe - gli storici infatti tramandano le due
versioni - comunque il più grave e spaventoso toccato alla città a causa di un
incendio. Iniziò nella parte del circo contigua ai colli Palatino e Celio, dove
il fuoco, scoppiato nelle botteghe piene di merci infiammabili, subito
divampò, alimentato dal vento, e avvolse
il circo in tutta la sua lunghezza. Non
c'erano palazzi con recinti e protezioni o templi circondati da muri
o altro che facesse da ostacolo.
L'incendio invase, nella sua furia, dapprima il piano, poi risalì sulle alture
per scendere ancora verso il basso, superando,
nella devastazione, qualsiasi soccorso, per la
rapidità del flagello e perché vi si prestavano la città e i vicoli
stretti e tortuosi e l'esistenza di enormi isolati, di cui era fatta la vecchia
Roma. Si aggiungano le grida di donne atterrite, i vecchi smarriti e i bambini,
e chi badava a sé e chi pensava agli altri e trascinava gli invalidi o li
aspettava; e chi si precipita e chi indugia, in un intralcio generale. Spesso,
mentre si guardavano alle spalle, erano investiti dal fuoco sui fianchi e di
fronte, o, se alcuno riusciva a scampare in luoghi vicini, li trovava anch'essi
in preda alle fiamme, e anche i posti che credevano lontani risultavano immersi
nella stessa rovina. Nell'impossibilità, infine, di sapere da cosa fuggire e
dove muovere, si riversano per le vie e si buttano sfiniti nei campi. Alcuni,
per aver perso tutti i beni, senza più nulla per campare neanche un giorno,
altri, per amore dei loro cari rimasti intrappolati nel fuoco, pur potendo
salvarsi, preferirono morire. Nessuno osava lottare contro le fiamme per le
ripetute minacce di molti che impedivano di spegnerle, e perché altri
appiccavano apertamente il fuoco, gridando che questo era l'ordine ricevuto,
sia per potere rapinare con maggiore libertà, sia che quell'ordine fosse reale.
39.
Nerone, allora ad Anzio, rientrò a Roma solo quando il fuoco si stava
avvicinando alla residenza, che aveva edificato per congiungere il Palazzo coi
giardini di Mecenate. Non si poté peraltro impedire che fossero inghiottiti dal
fuoco il Palazzo, la residenza e quanto la circondava. Per prestare soccorso al
popolo, che vagava senza più una dimora, aprì il Campo di Marte, i monumenti di
Agrippa e i suoi giardini, e fece sorgere baracche provvisorie, per dare accoglienza
a questa massa di gente bisognosa di tutto. Da Ostia e dai comuni vicini
vennero beni di prima necessità e il prezzo del frumento fu abbassato fino a
tre sesterzi per moggio. Provvedimenti che, per quanto intesi a conquistare il
popolo, non ebbero l'effetto voluto, perché era circolata la voce che, nel
momento in cui Roma era in preda alle fiamme, Nerone fosse salito sul
palcoscenico del Palazzo a cantare la caduta di Troia, raffigurando in
quell'antica sciagura il disastro attuale. 40.
Al sesto giorno finalmente l'incendio fu domato alle pendici dell'Esquilino,
dopo aver abbattuto, su una grande estensione, tutti gli edifici, per opporre
alla ininterrotta violenza devastatrice uno spazio sgombro e, per così dire, il
vuoto cielo. Non era ancora cessato lo spavento né rinata una debole speranza:
di nuovo il fuoco divampò in luoghi della città più aperti; ciò determinò un
numero di vittime inferiore, ma più
vasto fu il crollo di templi degli dèi e di porticati destinati allo svago.
Questo secondo incendio provocò commenti ancora più aspri, perché era scoppiato nei giardini
Emiliani, proprietà di Tigellino, e si aveva la sensazione che Nerone cercasse
la gloria di fondare una nuova città e di darle il suo nome. Infatti dei
quattordici quartieri in cui è ancora divisa Roma, ne rimanevano intatti
quattro, con tre rasi al suolo e degli altri sette restavano pochi relitti di
case, mezzo diroccate e semiarse. 41.
Calcolare il numero delle case, degli isolati e dei templi andati distrutti non
è facile: fra i templi di più antico culto bruciarono quello di Servio Tullio alla Luna, il grande altare
e il tempietto che l'arcade Evandro aveva consacrato, in sua presenza, a
Ercole, il tempio votato a Giove Statore da Romolo e la reggia di Numa e il
delubro di Vesta coi penati del popolo
romano; e poi le ricchezze accumulate con tante vittorie, e capolavori
dell'arte greca e i testi antichi e originali dei grandi nomi della
letteratura, sicché, anche nella straordinaria bellezza della città che
risorgeva, i vecchi ricordavano molti capolavori ora non più sostituibili. Ci
fu chi osservò che l'incendio era scoppiato il diciannove di luglio, lo stesso
giorno in cui i Senoni presero Roma e la diedero alle fiamme. Altri giunsero a
calcoli così maniacali da stabilire che tra i due incendi erano trascorsi lo stesso
numero di anni, di mesi e di giorni. 42. Sfruttò Nerone la rovina della
patria per costruirsi un palazzo, in cui destassero meraviglia non tanto le
pietre preziose e l'oro, di normale
impiego anche prima, in uno sfoggio generalizzato, quanto prati e
laghetti e, a imitazione di una natura selvaggia, da una parte boschi,
dall'altra prati soleggiati e vedute panoramiche, il tutto opera di due
architetti, Severo e Celere, che avevano avuto l'audacia intellettuale di
creare con l'artificio ciò che la natura aveva negato, sperperando le risorse
del principe. Avevano, infatti, promesso di scavare un canale navigabile dal
lago Averno fino alle foci del Tevere, attraverso spiagge desolate e l'ostacolo dei monti. Non esiste, infatti,
altro terreno acquitrinoso da cui derivare le acque, se non le paludi pontine:
tutto il resto è scosceso e arido e, se si fosse potuto aprire un passaggio, la
fatica sarebbe stata tremenda e sproporzionata. Tuttavia Nerone, nella sua
smania di cose impossibili, tentò degli scavi nelle alture vicine all'Averno, e
restano le tracce di questo progetto irrealizzato. 43. Sulle aree della città che, dopo la costruzione della reggia, restavano
libere, non si costruì, come dopo l'incendio dei Galli, senza un piano e nel
disordine, bensì calcolando l'allineamento delle vie e la carreggiata ampia
delle strade, ponendo limiti di altezza agli edifici, con vasti cortili e con
l'aggiunta di portici, per proteggere le facciate degli isolati. Nerone promise
di costruire i portici a sue spese e di restituire
ai loro proprietari le aree fabbricabili sgombre dalle macerie. Assegnò dei premi, secondo il ceto e le
disponibilità economiche di ciascuno, e fissò un limite di tempo entro cui
potessero disporne, a costruzione ultimata di case o isolati. Destinò allo
scarico delle macerie le paludi di Ostia e dispose che le navi, che risalivano
il Tevere portando frumento, lo discendessero cariche di macerie, e volle che
per gli edifici, in certe parti della loro struttura, non si ricorresse all'impiego di travi, ma alle pietre di Gabi
o di Albano, perché refrattarie al fuoco; poi, allo scopo che l'acqua, prima
deviata abusivamente da privati, scorresse più abbondante e in più luoghi, ad
uso pubblico, vi pose dei custodi, stabilendo che ciascun proprietario tenesse
in luogo accessibile il necessario per spegnere gli incendi e che ciascun edificio avesse, su tutti i lati, muri
propri, senza pareti in comune. Provvedimenti questi che, accolti con favore
per la loro utilità, conferiscono anche decoro alla nuova città. Tuttavia,
secondo alcuni, il vecchio assetto della città garantiva maggiori vantaggi alla
salute, perché i vicoli stretti e le costruzioni alte non erano penetrate così
facilmente dai raggi del sole: in tal modo, invece - dicevano - gli ampi spazi,
non protetti da ombra di sorta, erano esposti a una calura più insopportabile. 44. Tali furono le misure adottate
dalla provvidenza degli uomini. Subito dopo si ricorse a riti espiatori rivolti
agli dèi e vennero consultati i libri sibillini, su indicazioni dei quali si
tennero pubbliche preghiere a Vulcano, a Cerere e a Proserpina, e cerimonie
propiziatorie a Giunone, affidate alle matrone, dapprima in Campidoglio, poi
sulla più vicina spiaggia di mare, da dove si attinse l'acqua per aspergere il
tempio e la statua della dea, mentre banchetti rituali in onore delle dee e
veglie sacre furono celebrati dalle donne sposate. Ma non le risorse umane, non
i contributi del principe, non le pratiche religiose di propiziazione potevano
far tacere le voci sui tremendi sospetti che qualcuno avesse voluto l'incendio.
Allora, per soffocare ogni diceria, Nerone spacciò per colpevoli e condannò a
pene di crudeltà particolarmente ricercata quelli che il volgo, detestandoli
per le loro infamie, chiamava cristiani. Derivavano il loro nome da Cristo,
condannato a morte, sotto l'imperatore Tiberio, dal procuratore Ponzio Pilato. Momentaneamente
soffocata, questa rovinosa superstizione proruppe di nuovo, non solo in Giudea,
terra d'origine del flagello, ma anche a Roma, in cui convergono da ogni dove e
trovano seguaci le pratiche e le brutture più tremende. Furono dunque dapprima
arrestati quanti si professavano cristiani; poi, su loro denuncia, venne
condannata una quantità enorme di altri, non tanto per l'incendio, quanto per
il loro odio contro il genere umano. Quanti andavano a morire subivano anche
oltraggi, come venire coperti di pelli di animali selvatici ed essere sbranati
dai cani, oppure crocefissi ed arsi vivi come torce, per servire, al calar
della sera, da illuminazione notturna.
Per tali spettacoli Nerone aveva aperto i suoi giardini e offriva giochi nel
circo, mescolandosi alla plebe in veste d'auriga o mostrandosi ritto su un
cocchio. Per cui, benché si trattasse di colpevoli, che avevano meritato
punizioni così particolari, nasceva nei loro confronti anche la pietà, perché
vittime sacrificate non al pubblico bene bensì alla crudeltà di uno solo.
Video ricostruttivo dell'incendio di Roma del 64 d.C. Durata 4 minuti circa.
Video sulla Tomba di San Pietro
(durata: circa 11 minuti; il monumento si mostra dopo i primi 6 minuti)
Video sulla Domus Aurea di Nerone, la grande residenza imperiale
costruita dopo l'incendio del 64 d.C e rasa al suolo dagli imperatori seguenti
(durata: circa 12 minuti)
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Lettere
tra Plinio e Traiano
sulle persecuzioni anticristiane
Gaio Plinio Cecilio
Secondo il Giovane (61-113 d.C.), verso la fine della
sua vita, probabilmente dal 111 al 113 d.C., fu governatore della Bitinia
e del Ponto (attuale Turchia). Scrisse numerose lettere, raccolte in 10 volumi.
Il X contiene sia lettere scritte in Bitinia da Plinio a Traiano, sia le
risposte dell'imperatore. In particolare la lettera 96 informa il sovrano delle
attività riguardanti i processi ai cristiani e pone domande sulla giusta
procedura da seguire; la risposta di Traiano a Plinio è la lettera 97.
Plinio
il Giovane, Libro X delle Lettere, Lettera n.96
Signore, è per me un dovere deferire a te tutte le
questioni in merito alle quali sono incerto. Chi infatti può meglio dirigere la
mia titubanza o istruire la mia incompetenza? Non ho mai preso parte ad
istruttorie a carico dei Cristiani; pertanto, non so che cosa e fino a qual punto
si sia soliti punire o inquisire. Ho anche assai dubitato se si debba tener
conto di qualche differenza di anni; se anche i fanciulli della più tenera età
vadano trattati diversamente dagli uomini nel pieno del vigore; se si conceda
grazia in seguito al pentimento, o se a colui che sia stato comunque cristiano
non giovi affatto l’aver cessato di esserlo; se vada punito il nome di per se
stesso, pur se esente da colpe, oppure le colpe connesse al nome. Nel
frattempo, con coloro che mi venivano deferiti quali Cristiani, ho seguito
questa procedura: chiedevo loro se fossero Cristiani. Se confessavano, li
interrogavo una seconda e una terza volta, minacciandoli di pena capitale;
quelli che perseveravano, li ho mandati a morte. Infatti non dubitavo che,
qualunque cosa confessassero, dovesse essere punita la loro pertinacia e la
loro cocciuta ostinazione. Ve ne furono altri affetti dalla medesima follia, i
quali, poiché erano cittadini romani, ordinai che fossero rimandati a Roma. Ben
presto, poiché si accrebbero le imputazioni, come avviene di solito per il
fatto stesso di trattare tali questioni, mi capitarono innanzi diversi casi. Venne
messo in circolazione un libello anonimo che conteneva molti nomi. Coloro che
negavano di essere cristiani, o di esserlo stati, ritenni di doverli rimettere
in libertà, quando, dopo aver ripetuto quanto io formulavo, invocavano gli dei
e veneravano la tua immagine, che a questo scopo avevo fatto portare assieme ai
simulacri dei numi, e quando imprecavano contro Cristo, cosa che si dice sia
impossibile ad ottenersi da coloro che siano veramente Cristiani. Altri,
denunciati da un delatore, dissero di essere cristiani, ma subito dopo lo
negarono; lo erano stati, ma avevano cessato di esserlo, chi da tre anni, chi
da molti anni prima, alcuni persino da vent’anni. Anche tutti costoro
venerarono la tua immagine e i simulacri degli dei, e imprecarono contro
Cristo. Affermavano inoltre che tutta la loro colpa o errore consisteva
nell’esser soliti riunirsi prima dell’alba e intonare a cori alterni un inno a
Cristo come se fosse un dio, e obbligarsi con giuramento non a perpetrare
qualche delitto, ma a non commettere né furti, né frodi, né adulteri, a non
mancare alla parola data e a non rifiutare la restituzione di un deposito,
qualora ne fossero richiesti. Fatto ciò, avevano la consuetudine di ritirarsi e
riunirsi poi nuovamente per prendere un cibo, ad ogni modo comune e innocente,
cosa che cessarono di fare dopo il mio editto nel quale, secondo le tue
disposizioni, avevo proibito l’esistenza di sodalizi. Per questo, ancor più
ritenni necessario l’interrogare due ancelle, che erano dette ministre, per
sapere quale sfondo di verità ci fosse, ricorrendo pure alla tortura. Non ho
trovato null’altro al di fuori di una superstizione balorda e smodata. Perciò,
differita l’istruttoria, mi sono affrettato a richiedere il tuo parere. Mi
parve infatti cosa degna di consultazione, soprattutto per il numero di coloro
che sono coinvolti in questo pericolo; molte persone di ogni età, ceto sociale
e di entrambi i sessi, vengono trascinati, e ancora lo saranno, in questo
pericolo. Né soltanto la città, ma anche i borghi e le campagne sono pervase
dal contagio di questa superstizione; credo però che possa esser ancora fermata
e riportata nella norma.
Risposta di Traiano a Plinio, libro X delle Lettere
di Plinio, lettera n.97
Mio caro Secondo, nell’istruttoria dei
processi di coloro che ti sono stati denunciati come Cristiani, hai seguito la procedura alla quale
dovevi attenerti. Non può essere stabilita infatti una regola generale che
abbia, per così dire, un carattere rigido. Non li si deve ricercare; qualora
vengano denunciati e riconosciuti colpevoli, li si deve punire, ma in modo tale
che colui che avrà negato di essere cristiano e lo avrà dimostrato con i fatti,
cioè rivolgendo suppliche ai nostri dei, quantunque abbia suscitato sospetti in
passato, ottenga il perdono per il suo ravvedimento. Quanto ai libelli anonimi
messi in circolazione, non devono godere di considerazione in alcun processo;
infatti è prassi di pessimo esempio, indegna dei nostri tempi.
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Atti di San Massimiliano
Gli Atti
dei martiri sono resoconti
dei processi dei martiri cristiani.
Alcuni sono atti ufficiali, redatti nei tribunali, altri sono stati scritti da persone che assistettero ai processi o ne ebbero notizia da chi era presente ai fatti. Tra i numerosi Atti dei Martiri, troviamo gli Atti di San Massimiliano, un giovane processato nel 295 d.C., all’epoca dell’imperatore Diocleziano, a Tebesa, una città dell’Africa Proconsolare (=Algeria).
Alcuni sono atti ufficiali, redatti nei tribunali, altri sono stati scritti da persone che assistettero ai processi o ne ebbero notizia da chi era presente ai fatti. Tra i numerosi Atti dei Martiri, troviamo gli Atti di San Massimiliano, un giovane processato nel 295 d.C., all’epoca dell’imperatore Diocleziano, a Tebesa, una città dell’Africa Proconsolare (=Algeria).
«Sotto il consolato
di Tusco e Anulio, il 12 marzo dell'anno 295 d.C., a Tebesa, fu chiamato in
tribunale Fabio Vittore assieme a Massimiliano. L’avvocato Pompeiano, autorizzato a parlare, disse: “Fabio Vittore, esattore del temo, è introdotto con Valeriano Quinziano,
preposto imperiale, con il coscritto abile al servizio Massimiliano, figlio di
Vittore; poiché è arruolabile, chiedo sia passato allo statimetro”. Il
proconsole Dione domandò: “Come ti chiami ?”. Massimiliano rispose: “Perché
vuoi sapere il mio nome? A me non è lecito prestare il servizio militare, dato
che sono Cristiano”. Il proconsole Dione
disse: “Misuratelo!”. Mentre veniva
preparato per essere misurato, Massimiliano
affermò: “Non posso prestare il servizio
militare; non posso far del male. Sono Cristiano”. Il proconsole Dione ordinò: “Sia misurato!” Avvenuta la misurazione, fu data lettura da parte
dell’incaricato: “Misura cinque piedi e dieci once (=m
1,73)”. Dione disse all’incaricato:
“Riceva la piastrina di riconoscimento”.
Massimiliano, facendo resistenza, si
oppose: “Non lo faccio, non posso
prestare il servizio militare”. Dione
disse: “Fa il militare se non vuoi morire!”. Massimiliano rispose: “Non
faccio il soldato. Tagliami pure la testa, io non faccio il soldato per questo
mondo, ma servo il mio Dio”. Il proconsole Dione riprese: “Chi ti ha
messo queste idee nella testa?”. Massimiliano
rispose: “La mia coscienza e colui che mi
ha chiamato”. Dione si rivolse a
suo padre Vittore: “Fa’ ragionare tuo
figlio!”. Vittore rispose: “Lui sa da sé con la propria coscienza, che
cosa deve fare”. Dione a
Massimiliano: “Fa il servizio militare e
prendi la piastrina di riconoscimento”. Massimiliano rispose: “Non
accetto la piastrina. Ho già il segno del Cristo mio Dio”. Dione riprese: “Ti mando subito dal tuo Cristo…!”. Massimiliano rispose: “Vorrei
soltanto che tu lo facessi. Questo sarebbe anche la mia gloria!”. Dione si rivolse all’incaricato: “Gli sia messa la piastrina di riconoscimento!”.
Opponendosi, Massimiliano disse: “Non accetto il segno di riconoscimento del
mondo; se me lo metterai addosso, lo spezzerò, perché non ha nessun valore. Io
sono Cristiano, non mi è permesso tenere al collo una piastrina di piombo, dopo
il segno di salvezza del mio Signore Gesù Cristo Figlio del Dio vivente, che tu
non conosci, che ha sofferto per la nostra salvezza, che Dio consegnò come
prezzo per i nostri peccati. Tutti noi Cristiani serviamo lui, seguiamo lui,
principe della vita, garante della salvezza”. Dione disse: “Fa il soldato e
prendi la piastrina, sa non vuoi morire!”. Massimiliano rispose: “Io non
muoio. Il mio nome è già presso il mio Signore. Non posso fare il soldato”.
Dione disse: “Pensa alla tua giovinezza e fa’ il soldato: perché questo si conviene
ad un giovane!”. Massimiliano
rispose: “Il mio servizio è per il mio
Signore. Non posso servire al mondo come soldato. L’ho già detto, sono
cristiano”. Riprese il proconsole Dione:
“Nella guardia d’onore dei nostri
Imperatori Diocleziano e Massimiano, Costanzo e Massimo (Galerio), vi sono
soldati Cristiani e fanno il soldato”. Massimiliano
rispose: “Essi sanno che cosa convenga
loro. Tuttavia io sono Cristiano e non posso fare del male”. Dione disse: “Quelli che prestano il servizio militare, che male fanno ?”. Massimiliano rispose: “Tu lo sai di sicuro che cosa fanno”. Il proconsole rispose: “Fa’ il soldato, per non finir male col tuo
disprezzo del servizio militare!”. Massimiliano
concluse: “Io non morirò; ma se uscirò
dal mondo, la mia anima vivrà con Cristo mio Signore”. Dione disse: “Cancella il suo
nome!”. Dopo che venne cancellato, Dione
continuò: “Poiché rifiutasti il servizio
militare con spirito di indisciplina, ricevi la condanna che ne consegue, come
esempio per gli altri”. Quindi dalla tavoletta lesse il decreto: “È stato deciso di punire con la
decapitazione Massimiliano, perché con spirito di indisciplina ha rifiutato il
giuramento militare”. Massimiliano
disse: “Ringrazio Dio”. La sua vita
terrena fu di vent’un anni, tre mesi e diciotto giorni. E mentre veniva
condotto al luogo del supplizio, disse così: “Amatissimi fratelli, con tutte le vostre forze e con entusiasmo pieno
di desiderio affrettatevi ad ottenere di vedere il Signore e meritare anche voi
l’attribuzione di questa corona”. Poi col volto radioso, disse così a suo
padre: “Da’ al carnefice la mia veste
nuova, che mi avevi preparato per il servizio militare. Così ti accoglierò con
la schiera dei santi e così possiamo essere glorificati insieme col Signore”.
Subito dopo fu sottoposto al martirio.
Il
contesto storico-culturale e religioso
del martirio di Massimiliano di Tebesa.
del martirio di Massimiliano di Tebesa.
Nel Vangelo di Matteo,
Gesù dice ai discepoli:
“Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo
nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri
persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo
sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli
ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non
fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli,
che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque
perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”.
Il più antico catechismo cattolico è la “Tradizione Apostolica” di
Ippolito, scritta agli inizi del III sec. d.C.: “Il soldato non deve uccidere nessuno. Se riceve questo ordine, non deve
obbedire. Se non accetta queste condizioni, sarà scomunicato.”
Tertulliano, teologo nord-africano, agli inizi del III sec., scrisse
nell’”Apologeticum”: “Il giuramento militare e le promesse battesimali fatte a Dio sono
inconciliabili, così come lo sono il segno di Cristo e il segno del Diavolo
(…). A noi Cristiani non è permesso assumere nessuna divisa e nessun
comportamento destinati a compiere atti illeciti."
Cosa vuol dire esattamente “amare il nemico” e perché Gesù invita i
discepoli ad un atteggiamento tanto sorprendente?
Secondo Martin Luther King, amare il nemico vuol dire anzitutto avere la
capacità di perdonare chi ci ha fatto un torto. Soltanto chi sa perdonare, sa
amare pienamente. Perdonare vuol dire tornare a fidarsi, tornare a volersi bene.
Amare il nemico vuol dire riconoscere che egli non è soltanto un cattivo, in quanto anche egli è certamente capace di amare, perché come noi è ad immagine di Dio.
Osservando bene il nostro nemico, ci accorgeremo che il suo odio per noi può nascere da paura, ignoranza, incomprensioni, ecc. Pertanto il nemico non va annientato, ma conquistato con l’amicizia e la comprensione.
L’amore cristiano non è semplicemente un’esperienza sentimentale. I sentimenti vanno e vengono, sono instabili. L’amore è un atteggiamento: volere il bene degli altri senza chiedere nulla in cambio. Noi amiamo gli altri perché sappiamo che anche Dio li ama.
Noi possiamo odiare un’azione malvagia, ma non la persona che l’ha commessa. L’azione e la persona sono due cose diverse, distinte e separate. La persona è molto di più dell’azione compiuta.
Dunque perché amare i nemici? L’odio non può scacciare l’odio. Solo l’amore può farlo. L’odio accresce altro odio. Inoltre l’odio deturpa l’anima e sconvolge la personalità. L’odio è dannoso anche per la persona che lo prova, perché porta alla confusione tra bene e male, tra vero e falso, come accade alle persone razziste, che odiano chi viene da altrove.
Soprattutto l’amore è l’unica forza capace di trasformare il nemico in amico. La storia ce ne offre molti esempi: San Francesco e i briganti, il Presidente Lincoln e Stanton, Gandhi e gli Inglesi, Martin Luther King e i bianchi d’America, ecc.
Amare il nemico vuol dire riconoscere che egli non è soltanto un cattivo, in quanto anche egli è certamente capace di amare, perché come noi è ad immagine di Dio.
Osservando bene il nostro nemico, ci accorgeremo che il suo odio per noi può nascere da paura, ignoranza, incomprensioni, ecc. Pertanto il nemico non va annientato, ma conquistato con l’amicizia e la comprensione.
L’amore cristiano non è semplicemente un’esperienza sentimentale. I sentimenti vanno e vengono, sono instabili. L’amore è un atteggiamento: volere il bene degli altri senza chiedere nulla in cambio. Noi amiamo gli altri perché sappiamo che anche Dio li ama.
Noi possiamo odiare un’azione malvagia, ma non la persona che l’ha commessa. L’azione e la persona sono due cose diverse, distinte e separate. La persona è molto di più dell’azione compiuta.
Dunque perché amare i nemici? L’odio non può scacciare l’odio. Solo l’amore può farlo. L’odio accresce altro odio. Inoltre l’odio deturpa l’anima e sconvolge la personalità. L’odio è dannoso anche per la persona che lo prova, perché porta alla confusione tra bene e male, tra vero e falso, come accade alle persone razziste, che odiano chi viene da altrove.
Soprattutto l’amore è l’unica forza capace di trasformare il nemico in amico. La storia ce ne offre molti esempi: San Francesco e i briganti, il Presidente Lincoln e Stanton, Gandhi e gli Inglesi, Martin Luther King e i bianchi d’America, ecc.
A Roma nel 320 d.C. (età costantiniana)
La caduta dell'Impero Romano:
Prima Parte
La caduta dell'Impero Romano:
Seconda Parte
Ricostruzione delle insegne imperiali di Massenzio
rinvenute nei pressi del Colosseo.
Per saperne di più, cliccare su:
http://archeopalatino.uniroma1.it/it/content/insegne-imperiali
Per visualizzare il luogo del rinvenimento:
http://www.bing.com/maps/?v=2&cp=qzfjkhj16qzt&lvl=18.4&dir=271.41&sty=b&cid=DEC2D7A3DE71176!113&form=LMLTCC
La fede inventata dell’imperatore
Saggi . «Costantino e le sfide del cristianesimo», un volume collettivo per il Pozzo di Giacobbe. Un’opera coraggiosa che svela l’ uso pubblico della storia teso a legittimare il potere temporale della Chiesa
L'imperatore Costantino, la sua conversione al cristianesimo, la battaglia di Ponte Milvio, l’Editto di Milano costituiscono uno dei più riusciti modelli di «uso pubblico della storia», per riprendere l’espressione di Nicola Gallerano. Un processo con cui – scriveva Gallerano nel volume Le verità della storia. Scritti sull’uso pubblico del passato, manifestolibri –, mediante i mezzi di comunicazione di massa, la scuola, i monumenti si promuove una «lettura del passato polemica nei confronti del senso comune storico o storiografico» e si usa la storia per la battaglia politica. Complice l’anniversario numero 1.700 della promulgazione di quello che è spesso chiamato Editto di Milano, il 2013 appena concluso è stato costellato di iniziative per celebrare la ricorrenza dell’evento dell’anno 313. Mostre, francobolli, pubblicazioni, numeri speciali di riviste anche a grande tiratura, trasmissioni televisive che hanno contribuito a rafforzare nell’immaginario collettivo convinzioni tanto acquisite quanto storiograficamente errate, ovvero che la battaglia di Ponte Milvio fra Costantino e Massenzio fu vinta grazie ad un sogno-visione e che a Milano fu promulgato un editto. Arriva allora opportuna la pubblicazione di Costantino e le sfide del cristianesimo. Tracce per una difficile ricerca, curata da Stanislaw Adamiak e Sergio Tanzarella (Il Pozzo di Giacobbe, pp. 288, euro 23).
Un volume collettivo coraggioso perché nato all’interno di un «libero seminario» di storia della Chiesa tenuto nell’università Gregoriana, ateneo pontificio retto dai gesuiti, uno dei «templi» della cultura cattolica, a cui hanno partecipato giovani storici provenienti da decine di nazioni, per lo più extra-europee. E questa è stata una delle condizioni che ha reso possibile la realizzazione di una ricerca non viziata da pregiudizi romanocentrici. L’altra, necessaria in ogni ricerca, è il ritorno rigoroso alle fonti, per disinnescare «i meccanismi di un uso pubblico della storia del cristianesimo e dei mascheramenti del potere che ha costruito la figura di un Costantino cristiano al quale Dio concede potere e protezione a cominciare da un campo di battaglia fino all’indizione di un Concilio». Il risultato è un libro che problematizza la questione costantiniana, liberando il campo da semplificazioni e falsificazioni attorno ai nodi più discussi della vicenda di Costantino.
Come appunto l’Editto di Milano del 313, erroneamente considerato il primo provvedimento di tolleranza per i culti – fra cui il cristianesimo –, poiché già due anni prima, a Nicomedia, l’imperatore Galerio, aveva emanato un provvedimento grazie al quale il cristianesimo era diventato «religione lecita». Che a Milano sia stato promulgato un editto è dubbio, in ogni caso non dal solo Costantino: a Milano si sono incontrati i due «augusti» dell’epoca, Costantino e Licinio, per discutere questioni relative «al rispetto della divinità», successivamente diventate norme che hanno assicurato ai cristiani la libertà religiosa e la restituzione dei luoghi di culto confiscati. Del resto dell’Editto non esiste alcun testo, ma solo una lettera inviata al governatore della Bitinia da Licinio dopo il suo arrivo a Nicomedia nel giugno 313 in cui si fa riferimento alle decisioni di Milano.
La vittoria finale di Costantino, secondo la dinamica per cui la storia viene scritta dai vincitori (le fonti principali sono Eusebio e Lattanzio, cristiani e costantiniani), ha oscurato la figura di Licinio. Ed essendo Costantino il primo imperatore ad optare per il cristianesimo, la legislazione del 313 e successiva – che, fra l’altro, concedeva al clero l’esenzione dal pagamento delle tasse – si è andata configurando come primo editto di tolleranza del primo imperatore cristiano.
Altri due nodi, correlati fra loro: il sogno-visione di Costantino alla vigilia della vittoriosa battaglia di Ponte Milvio del 312, la conversione e il battesimo dell’imperatore. Le versioni di Eusebio e Lattanzio non coincidono: Costantino viene avvertito in sogno di segnare sugli scudi dei suoi soldati il nome di Cristo, ma ha anche una visione della croce con la scritta Hoc signo victor eris (con questo segno sarai vincitore). Nelle fonti non cristiane si segnala però che due anni prima lo stesso Costantino, in Gallia, ebbe una visione diversa: non del Dio cristiano, ma del pagano Sol invictus accompagnato da tre X, i successivi tre decenni di regno. Evidente quindi una cristianizzazione a posteriori dell’apparizione pagana. Avvalorata dal fatto che nell’Arco di Costantino, successivo alla battaglia di Ponte Milvio ma precedente ai testi di Lattanzio ed Eusebio, non vi è alcun riferimento al Dio cristiano, bensì diverse divinità pagane e la generica iscrizione di una vittoria instinctu divinitatis (per ispirazione di una divinità). Così come non vi è alcuna evidenza storica della conversione di Costantino, che peraltro sarebbe stato battezzato a Nicomedia poco prima della sua morte nel 337 e non al Laterano da papa Silvestro. Chiaro il disegno politico: rafforzare il papato e preparare la strada alla (falsa) Donazione di Costantino – l’imperatore convertito concedeva al papa il potere sull’Italia –, fondamento del potere temporale e dello Stato pontificio. Più che alla fede cristiana, allora, quella di Costantino è una conversione alla Chiesa, alleata dell’impero e utile al consolidamento del proprio potere.
Scavo archeologico delle insegne imperiali di Massenzio, pendici del Palatino, presso il Colosseo.
rinvenute nei pressi del Colosseo.
Per saperne di più, cliccare su:
http://archeopalatino.uniroma1.it/it/content/insegne-imperiali
Per visualizzare il luogo del rinvenimento:
http://www.bing.com/maps/?v=2&cp=qzfjkhj16qzt&lvl=18.4&dir=271.41&sty=b&cid=DEC2D7A3DE71176!113&form=LMLTCC
Plastico di Roma al Museo della Civiltà Romana, particolare dei Fori imperiali |
Roma: il Colosseo, come appariva ai tempi di Costantino (IV sec. d.C.) |
Roma: il Ludus Magnus, la palestra dei gladiatori sorta in prossimità del Colosseo. Le sue rovine sono parzialmente visibili in via Labicana. |
Roma: il Circo Massimo. |
Carta di Roma del 1575. In quell'epoca erano ancora visibili molti monumenti della Roma imperiale in seguito scomparsi. |
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