Storia Antica



La Preistoria. Origini delle civiltà.


La Preistoria è quel lungo periodo in cui l’umanità è esistita prima dell’invenzione della scrittura, dopo la quale invece inizia la storia. Dunque mentre la storia è nota attraverso le fonti scritte dagli antichi, la preistoria è nota esclusivamente da fonti materiali, che nelle età più remote erano di pietra. Perciò la preistoria è suddivisa in tre fasi a seconda dell’evoluzione degli strumenti litici: Paleolitico (=età della pietra antica), Mesolitico (=età della pietra di mezzo) e Neolitico (=età della pietra nuova). Le date di questi periodi variano da una zona all’altra perché le comunità antiche non si sono mai evolute tutte insieme contemporaneamente.

Un momento fondamentale è stato il “grande balzo in avanti” circa 70.ooo anni fa, quando per motivi sconosciuti la specie umana moderna (Homo Sapiens Sapiens) abbandonò l’Africa centro-orientale, suo luogo di origine, per migrare negli altri continenti, raggiungendo l’Australia già 60.ooo anni fa, l’Europa 40.ooo anni fa ed infine l’Ameirica più di 15.ooo anni fa. L’ultimo luogo della terra ad essere stato colonizzato dall’uomo è l’Isola di Pasqua, nell’Oceano Pacifico, circa 1.5oo anni fa.

Nella preistoria le piccole comunità umane vivevano di caccia e raccolta dei frutti selvatici, cioè di ciò che di commestibile si trovava in natura; pertanto erano costrette a spostarsi, secondo le stagioni, in funzione del cibo da procurarsi. La preistoria tramonta quando l’uomo si accorge che gli animali e le piante si possono addomesticare, inventando così l’agricoltura e l’allevamento. Una tale scoperta rese possibile la produzione di grandi quantità di cibo, per cui il popolamento aumentò enormemente. Infatti mentre un ettaro di territorio selvatico nutriva un solo cacciatore-raccoglitore preistorico, un ettaro di terra coltivata nutriva un centinaio di contadini. Ciò rese possibile la nascita di villaggi e poi di città stabili e l’uomo, dapprima nomade, divenne sedentario.

L’agricoltura non apparve in tutto il mondo contemporaneamente ma fu inventata per la prima volta in Medio Oriente circa 11.ooo anni fa, all’inizio del Neolitico, da dove si è presto diffusa in Europa. Agricoltura ed allevamento si sono sviluppati indipendentemente anche in altre parti del mondo in epoche successive: 10.ooo anni fa in Cina, 7.ooo anni fa in Africa, 5.ooo anni fa in America. Perché la cosiddetta Mezzaluna fertile, cioè l’area tra Mesopotamia ed il Mediterraneo (=Iraq, Siria, Turchia, Giordania)  ha avuto un tale primato nel mondo? Due fattori hanno fatto sì che il territorio dalla Valle dell’Indo fino all’Egitto e l’Europa fosse la culla delle civiltà più antiche ed avanzate: 1) è stata la terra d’origine della stragrande maggioranza di piante coltivabili ed animali da allevamento; 2) è una terra interamente collocata nella fascia temperata, caratterizzata da un clima favorevole alla diffusione di persone, scoperte e invenzioni. Partendo da un vantaggio ambientale, le civiltà dei Sumeri e degli Egizi furono le prime a sviluppare una complessa organizzazione sociale. 

Nelle piccole comunità preistoriche tutti dovevano partecipare alla raccolta del cibo nella foresta o alla caccia, per cui tutti erano uguali tra loro e il capo si distingueva per spirito di sacrificio e generosità. Al contrario già nelle prime città l’agricoltura e l’allevamento consentirono una tale produzione di cibo da sfamare gruppi di persone specializzate in altre attività: artigiani, militari, sacerdoti, burocrati, sovrani. Si formò così una gerarchia in cui proprio le persone con maggiore potere sono quelle che faticano di meno per nutrirsi, in quanto vivono del lavoro di masse di contadini che pagano le tasse per contribuire alle spese dello Stato. 
Proprio per la registrazione delle tasse, inizialmente consegnate sotto forma di generi alimentari, nacque l’esigenza della scrittura. In particolare la scrittura è apparsa autonomamente in quattro località in tempi diversi: in Mesopotamia e in Egitto intorno al 3.ooo a.C., in Cina dopo il 2.ooo a.C ed in America Centrale nel 6oo a.C. negli altri luoghi la scrittura è giunta per diffusione. Per esempio il nostro alfabeto latino trae origine da quello greco, a sua volta ricavato da quello fenicio, a sua volta derivato dalla schematizzazione di un limitato gruppo di geroglifi egizi.


Osservazione: non è la superiorità culturale o intellettiva  a spiegare la maggiore ricchezza e potenza di un popolo sugli altri ma le condizioni ambientali di partenza. Non ci sono “razze” umane inferiori o superiori, infatti l’essere umano appartiene alla medesima specie diffusa in tutto il mondo: Homo Sapiens Sapiens.



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L'introduzione dell'agricoltura in Europa fu opera di popoli invasori provenienti dal Vicino Oriente (= attuali Turchia ed Iraq). Cliccare sul seguente link:
http://www.nationalgeographic.it/popoli-culture/2010/11/11/news/scoperti_i_primi_contadini_europei-135447/
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Introduzione allo sudio della storia

1. Definizione di “storia.”
La storia è la spiegazione delle cause degli avvenimenti realmente accaduti nel passato. Essa risponde alla domanda: “Perché è successo tale evento?” Quindi la storia è qualcosa di più della semplice cronaca, che invece è solo racconto di fatti accaduti.

2.a. Inizi della storia.
La storia, intesa come fatti che si possono raccontare e spiegare, è iniziata in tempi diversi nelle diverse parti del mondo. Essa infatti comincia con l’invenzione della scrittura, che è lo strumento che consente di tramandare le informazioni a persone di altri luoghi e di epoche successive. La scrittura è stata inventata autonomamente, cioè senza che il suo sistema venisse copiato, solamente in quattro luoghi:
-          3.000 a.C. circa: scrittura cuneiforme dei Sumeri, in Mesopotamia, attuale Iraq.
-          3.000 a.C. circa: scrittura geroglifica degli Egizi, in Egitto.
-          1.700 a.C. circa: scrittura cinese, in Cina, passata per varie evoluzioni, è ancora in uso .
-          600 a.C. circa: scrittura degli Zapotechi, in America Centrale, attuale Messico.
Tutti gli altri popoli hanno acquisito la scrittura copiandone l’uso da un’altra civiltà. Per esempio noi usiamo l’alfabeto latino, cioè quello dell’antica Roma, ma a loro volta gli antichi Romani adottarono l’alfabeto dai Greci, che l’avevano ricavato dai Fenici, i quali l’avevano inventato partendo da alcuni dei tantissimi geroglifi egizi.

2.b. Quando inizia la storia in Italia
L’Italia entra nella storia, cioè adotta l’uso della scrittura, nell’VIII sec. a.C. Il più antico testo scritto trovato in Italia è la cosiddetta Coppa di Nestore, una coppa per il vino, fatta di ceramica, trovata dagli archeologi in una tomba greca dell’isola di Ischia, l’antica Pithekussai, che fu il primo insediamento greco in Italia. Sulla coppa, risalente al 720-700 a.C., è stata incisa una poesia che dice:  “La Coppa di Nestore era certamente ottima per berci, ma chiunque berrà da questa coppa sarà preso dal desiderio della ben-coronata Afrodite.” Nestore, re di Pilo, citato nella poesia è un personaggio della guerra di Troia, che aveva una coppa di bronzo pesantissima, decorata con due colombe d’oro.


La cosiddetta "Coppa di Nestore," (725 a.C. circa)
ovvero la più antica testimonianza di scrittura in Italia.
Il testo greco è inciso sulla parte inferiore della coppa.




3. Quando inizia la ricerca storica: "Le Storie" di Erodoto.
Le cronache, cioè racconti di fatti accaduti, sono iniziate in varie epoche dopo l’invenzione della scrittura. La storia, invece, come disciplina che spiega le cause dei fatti, è stata inventata dai Greci. Il primo storico è considerato Erodoto di Alicarnasso, vissuto nel V sec. a.C., che scrisse Le Storie in nove volumi, dove tratta i conflitti tra Oriente ed Occidente, in particolare le guerre tra Greci e Persiani. La parola “storia” è di origine greca e vuol dire: “ciò che si sa perché è stato visto.” Nell’introduzione alla sua opera Erodoto scrive: “Questa è l’esposizione delle ricerche di Erodoto di Alicarnasso, scritta perché le imprese degli uomini col tempo non siano dimenticate e perché le gesta grandi e meravigliose dei Greci e dei Barbari non rimangano senza gloria e inoltre perché sia chiaro per quale motivo vennero a guerra tra loro.” Erodoto pubblicò la sua opera ad Atene. Infine si trasferì in Magna Grecia, cioè nell’Italia meridionale. In effetti Atene è una delle città in cui ha avuto origine la moderna civiltà occidentale.

4. Origini della civiltà occidentale.
Uno o più popoli caratterizzati da una storia in comune, un modo di pensare, uno stile di vita, una religione, tradizioni, un certo modo di vestirsi, di abitare, di cucinare, formano una civiltà. Nel mondo varie e numerose civiltà sono apparse e scomparse nel corso di migliaia di anni. Differenti civiltà esistono nel mondo moderno. Gli Italiani appartengono alla cosiddetta civiltà occidentale, estesa in ben tre continenti: l’Europa, l’America e l’Australia. La civiltà occidentale è nata in Europa, da dove si è diffusa nei territori scoperti dagli Europei in tempi recenti, come in America dopo il 1492 ed Australia dopo il 1770. La storia studiata a scuola è solamente di ambito occidentale.
La civiltà occidentale è nata in tre città del mondo antico, tutte di area mediterranea: Gerusalemme, Atene e Roma.

Gerusalemme, in Israele, ha lasciato in eredità alla civiltà occidentale la religione cristiana. Gesù, detto il Cristo, che tuttavia non intendeva fondare una nuova religione ma semplicemente dimostrare agli esseri umani l’infinito amore di Dio per loro, in questa città è stato crocifisso ed è risorto all’epoca dell’imperatore romano Tiberio, probabilmente intorno al 30 d.C. Da tale città, dunque, gli apostoli, particolarmente Paolo di Tarso, sono partiti per diffondere gli insegnamenti del Maestro nel mondo allora conosciuto, che all’epoca era soggetto all’impero romano.

Atene, in Grecia, fu una delle più ricche e potenti città greche dell’antichità. In questa città sono nati o si sono incontrati molti intellettuali greci che hanno elaborato un modo di concepire la realtà che tuttora caratterizza la civiltà occidentale. La scienza moderna è di origine greca. I popoli precedenti spiegavano i fenomeni naturali ricorrendo alla religione ed alla mitologia. I Greci per primi in Europa diedero risposte basate sull’osservazione diretta della natura. Tuttora si ricorda, ad esempio, Archimede di Siracusa, geniale in molti ambiti. Greci furono alcuni dei più grandi geografi antichi, come Eratostene di Cirene, che calcolò l’ampiezza del globo terrestre. Matematica e geometria sono nate in Grecia. Dapprima Sumeri, Babilonesi ed Egizi studiavano i princìpi matematici solamente per scopi pratici: delimitare i confini dei campi, costruire edifici, ecc. I Greci invece per primi concepirono la matematica come un’arte del ragionamento, finalizzata a se stessa, cioè disciplina autonoma rispetto alle esigenze pratiche. Anzi, proprio in quanto arte del ragionamento, tale sapere fu chiamato “matematica,” che in greco vuol dire “le cose imparate,” perché consisteva in ciò che bisognava conoscere meglio. In Grecia è nata la psicologia, se pensiamo all’illustre filosofo Socrate che predicava: Conosci te stesso! È d’invenzione greca la filosofia, che consiste nel porsi domande sul significato di tutto ciò che ci circonda e infatti è una disciplina da cui si è diramata la scienza moderna. In Grecia è nata la storia. Dapprima esistevano solamente cronache, cioè liste di fatti avvenuti nel passato. Gli scrittori greci, come Erodoto, Tucidide, ecc, sono stati i primi a chiedersi le cause degli avvenimenti che essi stessi tramandavano. La ricerca storica è infatti indagine sulle motivazioni reali e profonde degli eventi passati. La letteratura occidentale, cioè il nostro modo di scrivere poesie, romanzi, opere di teatro è nata in Grecia. Tutti gli scrittori infatti fanno parte di una tradizione letteraria, perché ciascuno che voglia scrivere artisticamente deve conoscere le opere dei predecessori, sia per imparare da loro sia per poi superarli nei contenuti e nello stile. Tutti gli scrittori della civiltà occidentale hanno imparato a fare letteratura da scrittori precedenti, a ritroso sino ai poemi omerici: l’Iliade (750 a.C. circa) e l’Odissea (700 a.C. circa). Anche l’arte figurativa occidentale è di origine greca. Dapprima gli scultori e i pittori eseguivano opere dettate dall’utilità: la rappresentazione di un re vittorioso in battaglia per motivi propagandistici, la rappresentazione di una divinità per motivi religiosi, il ritratto di un defunto per ricordarlo dopo la morte, ecc. I Greci invece furono i primi in Europa a creare statue e pitture per la loro stessa bellezza, cioè senza utilità, proprio come i moderni artisti. Pochissime opere d’arte antica esistono al giorno d’oggi, ad esempio i famosi Bronzi di Riace, eseguiti da Onatas di Egina ed Agelada di Ago. Altra grande invenzione greca: la democrazia, cioè l’idea che le decisioni riguardanti lo Stato possano essere prese dai cittadini che democraticamente eleggono i loro rappresentanti. Prima di allora infatti il potere spettava solo ai sovrani e ai nobili, privilegiati per nascita. Atene sperimentò persino la democrazia radicale, quando i cittadini ebbero la possibilità di intervenire direttamente sulle decisioni politiche partecipando all’Assemblea.

Roma, in Italia, ha contribuito alla formazione della civiltà occidentale prevalentemente per gli aspetti pratici. L’architettura moderna deriva da quella romana, specialmente per quanto riguarda l’uso dell’arco e del cemento, tuttora molto usati. I romani escogitarono persino un cemento impermeabile all’acqua, ottimo per costruire ponti, porti, acquedotti, terme, ecc. Attraverso secoli di trasformazioni, le nostre leggi derivano direttamente da quelle romane, sin dalle leggi scritte per la prima volta a Roma su dodici tavole di bronzo (450 a.C.). Persino i Barbari ebbero ammirazione per le leggi romane e ne conservarono molte nei loro regni costituiti dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente. I Romani hanno poi realizzato qualcos’altro che ha condizionato per sempre la storia d’Europa: le strade. Nessun grande impero può esistere a lungo senza una rete stradale. Le strade sono necessarie per inviare eserciti fino ai più remoti confini e per mettere tutte le città in relazione con la capitale. Da Roma partivano numerose strade che si diramavano per tutto l’impero. Da qui il famoso proverbio: tutte le strade portano a Roma. La prima ad essere realizzata fu quella voluta dal censore Appio Claudio Cieco nel 312 a.C. da Roma a Capua, che da lui fu detta via Appia, poi prolungata fino a Brindisi. Tali strade sono importanti non solo perché sono tuttora utilizzate, ma soprattutto perché hanno consentito la crescita e la diffusione della civiltà occidentale. Infatti se non ci fossero state le strade romane, il Cristianesimo sarebbe rimasto confinato in Israele e forse sarebbe presto scomparso. Senza le strade romane tutte le conquiste del pensiero greco (scienza, filosofia, letteratura, storia, arte, democrazia), sarebbero rimaste limitate alla Grecia e, dopo alcuni secoli sarebbero state probabilmente dimenticate. La nostra cultura, dunque, è anche il frutto di milioni di persone che nell’antichità hanno percorso migliaia di chilometri di strade costruite e restaurate dai magistrati dell’antica Roma.


Roma, Via Appia 

5. Le fonti della storia
Lo storico che voglia ricostruire i fatti del passato e comprenderne le motivazioni ha a disposizione vari tipi di fonti storiche: fonti scritte, orali, iconografiche e materiali.
-          Fonti scritte: qualsiasi testo scritto utile alla ricostruzione del passato
-          Fonti orali: qualsiasi racconto orale, dunque non scritto ma riferito a voce, utile alla ricostruzione del passato
-          Fonti iconografiche: qualsiasi immagine utile alla ricostruzione del passato
-          Fonti materiali: qualsiasi monumento o oggetto utile alla ricostruzione del passato.

6. L’utilità della storia
Lo studio della storia soddisfa alcune delle tante curiosità dell’essere umano: sapere cosa è accaduto nell’antichità, come si viveva nel passato, conoscere le cause dei fatti, ecc. Inoltre il passato si studia per spiegare il presente. Tutte le caratteristiche del mondo in cui viviamo hanno un’origine nel passato. In particolare la storia ci rende consapevoli della nostra identità culturale: noi siamo quello che siamo in quanto frutto del passato che ci ha preceduto. Inoltre una mente allenata allo studio della storia è capace di ragionare sugli avvenimenti, anche quelli della propria vita personale, e impara a distinguere più facilmente le verità e le menzogne riferite da altri.

7. La cronologia
Poiché la storia è spiegazione delle cause dei fatti del passato, risulta importante la cronologia, cioè la precisazione del momento in cui è accaduto qualcosa. Infatti la conoscenza delle date è fondamentale per sapere se un evento è accaduto prima, dopo o contemporaneamente ad un altro. L’avvenimento storico precedente può essere la causa di quello successivo, il successivo a sua volta può essere la conseguenza di quello precedente, infine due fatti contemporanei tra loro potrebbero avere una causa in comune.
Ogni cronologia ha bisogno di un punto di partenza da cui contare gli anni. Tutte le civiltà hanno avuto una propria cronologia. La nostra civiltà, che è quella occidentale, conta gli anni dalla nascita di Gesù Cristo, per cui trovarsi nell’anno 2013 vuol dire che sono trascorsi 2013 anni dalla nascita di Gesù. Gli anni precedenti alla nascita di Cristo si contano a ritroso e riportano la sigla a.C. (= avanti Cristo). L’uso di contare gli anni prima e dopo Cristo è iniziato col monaco Dionigi il Piccolo, originario della Scizia (attuale Dobrugia, in Romania). Egli nel 525, su incarico del Papa, inventò un sistema per calcolare le date della Pasqua e per la prima volta enumerò gli anni dalla nascita del Messia. A quel tempo, invece, si contavano gli anni dalla fondazione di Roma (=754 a.C.). Una caratteristica di questa numerazione è che non esiste l'anno zero: Dionigi infatti non conosceva lo zero perché sarebbe stato introdotto in Europa alcuni secoli dopo attraverso i numeri arabi, che in verità sono di origine indiana. Dionigi stabilì quindi che l'anno precedente all' anno 1 fosse l'1 a.C. Tuttavia la maggior parte degli storici moderni ritiene che Dionigi abbia sbagliato il suo calcolo di alcuni anni, infatti pare che Gesù sia nato alcuni anni prima della data stabilita dal monaco scita, probabilmente nel 7 o nel 6 a.C.
Nello studio della storia spesso si fa riferimento ai secoli, cioè periodi di cento anni, indicati con numeri romani. L’attuale secolo, ad esempio, è il XXI (ventunesimo), che comprende gli anni dal 2001 al 2100. Le epoche (evi), invece, sono periodi di molti secoli. Le epoche principali della storia occidentale sono le seguenti:
-          Evo Antico: dall’apparizione della scrittura alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C.)
-          Evo Medio: dalla caduta dell’Impero Romano d’occidente alla scoperta dell’America (1492)
-          Evo Moderno: dalla scoperta dell’America alla Rivoluzione Francese (1789)
-          Evo Contemporaneo: dalla Rivoluzione Francese ad oggi.


Le Origini di Roma

Le origini leggendarie di Roma.

Secondo la leggenda Enea, scampato alla guerra di Troia, giunse nel Lazio, dove il re Latino gli concesse in sposa la propria figlia Lavinia. Iulo Ascanio, figlio di Enea, fondò la città di Alba Longa. Suoi discendenti erano i fratelli Numitore, re di Alba Longa, ed Amulio, che usurpò il regno e costrinse Rea Silvia, figlia di Numitore, a divenire sacerdotessa. Rea ebbe da Marte, dio della guerra, due gemelli. Per mantenere il potere, Amulio condannò a morte Rea e abbandonò i bambini su una cesta  al fiume Tevere, che li trasportò fino al fico ruminale, dove furono trovati ed allattati da una lupa e poi adottati dal pastore Faustolo. Quando i due furono cresciuti, uccisero il malvagio zio e riportarono Numitore sul trono, dopodichè decisero di fondare una nuova città. Tuttavia litigarono per stabilire il nome e la sede della città, infatti Remo la voleva costruire sul colle Aventino e Romolo sul Palatino. Nello scontro Remo finì ucciso, per cui Romolo divenne il primo re di Roma. Egli regnò per 40 anni.


Scoperto il Lupercale, la grotta in cui 
-secondo gli antichi Romani- 
la lupa avrebbe allevato Romolo e Remo.


Roma, la Lupa Capitolina. (Musei Capitolini)


Le origini di Roma secondo la ricerca storico-archeologica.

Gli antichi storici latini tramandano che Roma fu fondata il 21 aprile del 753 a.C. Non è una data casuale. Il 21 aprile nel calendario romano era la festa Palilia, sorta di capodanno per i pastori romani, festa di Pales, misteriosa divinità pastorale, da cui forse trae nome il colle Palatino. In realtà le colline di roma erano già abitate dal IX sec. a.C. ma si trattava di semplici villaggi di capanne di pastori e contadini. Nel 753 a.C. invece nasce Roma intesa come città-stato, federazione dei villaggi sui famosi sette colli, in latino Septimontium.
L’archeologo Andrea Carandini, dopo aver esaminato attentamente le opere degli storici antichi e dopo venti anni di scavi condotti al centro di Roma ha ricostruito in che modo è avvenuta la fondazione della città.  Romolo anzitutto cerca la benedizione degli dei sull’impresa. Si reca sul colle Aventino per osservare il volo degli uccelli e ne deduce che Giove è favorevole sul Palatino, dopodiché chiama dei sacerdoti etruschi per imparare i riti di fondazione. Dal Palatino guarda verso il Monte Albano (oggi Monte Cavo, a circa 30 km da Roma), sede del Tempio di Giove Laziare, per invocare la benedizione sul territorio da consacrare alla città, delimitato da un confine sacro, quadrangolare, detto pomerium, la cosiddetta Roma quadrata. Costruisce la sua capanna. Celebra i Palilia: si accendono fuochi su cui gli uomini saltano per propiziare la nascita dei capretti. Scava una fossa votiva contenente le primizie e manciate di terra dai luoghi di origine dei fondatori. Suona il lituo e pronuncia il nome conosciuto e i nomi segreti di Roma. Traccia il sulcus primigenius col capo velato, secondo il rito etrusco, servendosi di una mucca, un toro ed un vomere dalla punta di bronzo, alzando l’aratro in corrispondenza dei punti in cui sorgeranno le porte della città. Questo primo solco tracciato definisce un limite inviolabile, su cui costruire le mura della città. Si sono trovate le tracce di una delle prime porte della città: Porta Mugonia, sotto la quale si è scoperta la tomba di una bambina sepolta con alcune ceramiche, tra cui una tazza databile al 775-750 a.C., che conferma la data tradizionale di fondazione intorno al 750 a.C
Altra impresa importante di Romolo è stata la realizzazione del Foro, cioè la pubblica piazza, ai piedi del Palatino, collocato in una piccola valle soggetta alle inondazioni del Tevere, compresa tra due piccole alture, una con il santuario di Vulcano (il fuoco della guerra), presso cui si riuniva l’assemblea degli abitanti più nobili, l’altra con il santuario di Vesta (il fuoco sacro della città). Il foro si trovava fuori dalle mura tracciate da Romolo, da cui il nome Forum che vuol dire fuori. Il re si trasferì nel foro, vicino al Tempio di Vesta, in una grande capanna con un cortile dal quale osservava il cielo, in particolare i fulmini all’alba, per interpretare la volontà degli dei. Anche sotto questa capanna è stata trovata una fossa di fondazione con ceramiche del 750-725 a.C. Qualche tempo dopo la capanna è stata monumentalizzata diventando la più sontuosa di quell’epoca. È la prima Regia, primo palazzo reale di Roma.
Ai margini del foro c’è un altro colle fondamentale nella formazione di Roma: il Campidoglio, con il tempio di Giove Feretrio, anch’esso dell’VIII sec. a.C., dove si custodiva il lapis silex, probabilmente un’ascia preistorica con una pietra capace di suscitare scintille, assimilata a Giove, dio dei fulmini e garante dei giuramenti. Infatti se due uomini giuravano di rispettare un patto, il sacerdote uccideva una scrofa con l’ascia dicendo che chi avrebbe tradito il giuramento avrebbe fatto la stessa fine.
Romolo fu dunque il primo ordinatore dello spazio romano definendo i limiti sacri della città e il luogo del foro, ma fu anche ordinatore della società in quanto suddivise gli abitanti in tre tribù, ciascuna suddivisa in dieci curie, per un totale di trenta curie, che fornivano un senato di cento nobili ed un esercito di 3.000 fanti e 300 cavalieri. Infine fu ordinatore del tempo, perché stabilì un calendario lunare di dieci mesi, che iniziava il 15 marzo con la festa di Anna Perenna e terminava il 23 dicembre con la festa dei Terminalia, esprimendo probabilmente nel ciclo di 274 giorni il tempo della gravidanza.



Spaccato ricostruttivo del primo Palazzo Reale di Roma,
presunta residenza ufficiale di Romolo nel Foro Romano.




Pianta topografica del primo palazzo del re di Roma: situato nel Foro Romano, 
era la più monumentale residenza realizzata in Italia in quell'epoca (725-700 a.C.)



Il seguente link rimanda alle ultime novità sulla Cloaca Maxima, capolavoro dell'ingegneria romana del VI secolo a.C, risalente alla "monarchia etrusca" e finora in gran parte ignota nella sua estensione: 





Appunti sull’Impero Romano

L’Impero Romano è stato uno dei più grandi e potenti imperi nella storia dell’umanità. La sua storia si divide in tre fasi a seconda dell’ordinamento politico:
A) Monarchia (753 a.C. - 509 a.C.)
B) Repubblica (509 a.C. - 27 a.C.)
C) Impero (27 a.C. – 476 d.C.)

Monarchia (754 – 509 a.C.). All’inizio Roma era governata da un Re affiancato da un Senato di nobili. I leggendari sette Re di Roma furono:
1)      Romolo: fondatore della città il 21 aprile 753 a.C., ordinatore del territorio cittadino, della società e del calendario romano. La nascita di Roma fu subito favorita dalla sua collocazione strategica all’incrocio tra la via del sale, Via salaria, che favoriva gli scambi tra la costa e l’Italia centrale, e la via che da nord a sud consentivano gli scambi con Etruschi dell’Etruria e Greci dell’Italia meridionale.
2)      Numa Pompilio: il re-sacerdote, fondatore della religione romana.
3)      Tullo Ostilio: il re-guerriero, che conquistò Fidene, Veio ed Albalonga.
4)      Anco Marcio: il re mercante, costruì il primo ponte sul Tevere favorendo l’espansione della città sul Gianicolo,  fondò Ostia con il suo porto alla foce del Tevere e promosse i commerci.
5)      Tarquinio Prisco: primo re etrusco della città, che costruì edifici pubblici importanti come il Tempio di Giove Capitolino, la Cloaca Maxima, il Circo Massimo per le gare con i cavalli e edifici del Foro Romano.
6)      Servio Tullio: secondo re etrusco della città, che compì il primo censimento e costruì le cosiddette Mura Serviane che difendevano i Sette Colli da eventuali nemici.
7)      Tarquinio il Superbo: terzo ed ultimo re etrusco della città. Si racconta che i suoi anni di regno siano stati segnati da omicidi, violenze e terrore, per cui fu cacciato nel 509 a.C. a seguito di una rivolta guidata da Lucio Tarquinio Collatino e Lucio Giunio Bruto, primi due consoli della Repubblica che fu istituita invece della Monarchia.

Repubblica (509 a.C. – 27 a.C.). In questa fase Roma era governata
-          da due Consoli, che guidavano l’esercito in battaglia,
-          da trecento Senatori (poi portati a novecento da C. Giulio Cesare), che prendevano le decisioni più importanti: esaminare le leggi, redigere trattati internazionali, gestire il denaro pubblico, ecc.
-          da dieci Tribuni della Plebe, che rappresentavano gli interessi del popolo.
Durante la repubblica, l’Impero Romano crebbe continuamente con la conquista di tutte le coste del Mediterraneo, dalla penisola iberica (=Spagna) alla penisola anatolica (=Turchia). La Repubblica terminò dopo che C. Giulio Cesare, conquistate le Gallie (=Francia), compì un colpo di Stato divenendo dittatore a vita. Il colpo di Stato conquista il potere con la forza delle armi. Per realizzare le sue ambizioni Cesare dovette lottare contro il repubblicano Pompeo, che infine fu decapitato in Egitto dal re Tolomeo XIII. Cesare a sua volta fu assassinato nel 44 a.C. da alcuni senatori e cadde ucciso proprio sotto la statua di Pompeo. Il suo potere passò nelle mani del nipote Ottaviano Augusto, che nel 27 a.C. fu eletto “principe” dal Senato dopo che aveva sconfitto Antonio e Cleopatra. Così ebbe termine la Repubblica e iniziò l’Impero.

Impero (27 a.C. – 476 d.C.). In questa fase Roma era governata da un imperatore, cioè da un generale dell’esercito (infatti in latino imperator vuol dire “generale”) che spesso era anche console e tribuno della plebe. Il Senato continuò ad esistere ma il suo potere risultò molto ridotto. Gli imperatori molto amati, dopo la morte, ricevevano l’apoteosi, cioè erano divinizzati: gli si dedicava un tempio e gli si offrivano sacrifici; invece quelli molto odiati erano condannati alla damnatio memoriae: si cancellavano i loro ritratti e i nomi dai monumenti pubblici perché venissero dimenticati.
Il primo imperatore fu Ottaviano Augusto, il nipote di Giulio Cesare. Altri imperatori sono rimasti famosi nella storia: Caligola per la sua follia; Nerone per l’incendio di Roma e la prima persecuzione contro i cristiani; Vespasiano per il Colosseo, inaugurato nell’anno 80 d.C., al tempo di suo figlio Tito, famoso per la distruzione di Gerusalemme; Traiano, di origine iberica, per aver portato l’impero alla sua massima espansione, per esempio con la conquista della Dacia (=Romania) nel 106, raccontata sulla Colonna Traiana; Adriano per l’architettura (Villa Adriana, Pantheon, ecc.); Marco Aurelio per il suo diario (Colloqui con se stesso); Commodo, l’imperatore-gladiatore, perché da lui, dopo il 180 d.C., inizò la decadenza dell’impero; Didio Giuliano per aver comprato l’impero all’asta nel 193; Settimio Severo, nord-africano, per aver realizzato su marmo la carta topografica di Roma (Forma Urbis); suo figlio Caracalla, per aver dato nel 212 d.C. la cittadinanza a tutti gli abitanti dell’impero; Aureliano per le Mura Aureliane; Diocleziano per aver diviso l’impero in quattro parti; Costantino, fodatore di Costantinopoli, per aver dichiarato nel 313 d.C. il cristianesimo religione tollerata; Massenzio, sconfitto da Costantino, annegò nel Tevere, unico impertore romano di cui rimangono le insegne imperiali; Giuliano l’Apostata per il ritorno al paganesimo; Teodosio per aver imposto nel 380 d.C. il Cristianesimo come religione di Stato dell’impero; Romolo Augustolo per essere stato l’ultimo imperatore d’Occidente.

La fine dell’Impero Romano
Già da secoli le popolazioni barbariche di origine sia europea che asiatica premevano sulle frontiere dell’Impero perché desideravano condividerne il benessere e le ricchezze. Alcuni barbari volevano migrare nei territori romani e abitarvi come i Romani, altri volevano compiere solo saccheggi e rapine. Finché l’impero rimase ricco e potente, gli imperatori romani riuscirono a ricacciarli indietro, ma dal III sec. d.C. in poi, con la decadenza, risultò sempre più difficile proteggere i territori romani. Episodi particolarmente drammatici furono i saccheggi di Roma del 410 d.C ad opera di Alarico, Re dei Visigoti, e del 455 d.C. ad opera di Genserico, Re dei Vandali. Un altro disastro fu risparmiato all’Italia da papa Leone Magno, che nel 452 d.C. convinse Attila, re degli Unni a tornare indietro.
Dal IV sec. d.C. molti barbari erano migrati pacificamente nei territori romani e si erano arruolati nell’esercito imperiale, tuttavia i Romani li consideravano con sospetto e disprezzo. Questa mancata integrazione dei barbari tra la popolazione locale fu uno dei motivi della caduta dell’Impero Romano d’Occidente. Negli ultimi tempi l’impero era diviso in Oriente e Occidente: la metà occidentale fu gradualmente sottomessa dai barbari, la metà orientale durò ancora molti secoli e fu conquistata dai Turchi nel 1453.
La metà occidentale cadde nel 476 d.C., quando l’ultimo imperatore Romolo Augustolo, un ragazzo di circa quindici anni, rifiutò di concedere le terre agli Eruli in cambio del servizio militare svolto. Per tale motivo Odoacre, acclamato re dai suoi soldati, esiliò l’ultimo imperatore a Napoli e si autoproclamò governatore d’Italia spedendo le insegne imperiali a Zenone, imperatore della parte orientale dell’impero, con capitale a Costantinopoli. Poiché tutto ciò accadeva apparentemente nel rispetto delle leggi romane, gli storici moderni dicono che l’Impero Romano d’Occidente cadde senza fare rumore, cioè senza che i Romani di quel tempo se ne rendessero conto.


Fonte:  Capitolium (gruppo facebook)





Lago di Nemi: le navi di Caligola


Il Colosseo


Il Colosseo: ricostruzione in 3D

Roma. Una delle due biblioteche del Foro di Traiano.
Ricostrizione grafica di Marco Capasso.


Video sul Pantheon 



Video sulle Terme di Caracalla con ricostruzioni virtuali 


Cristianesimo ed Impero Romano

Gesù
Nell’anno 753 dalla fondazione di Roma, al tempo dell’imperatore Augusto, a Betlemme di Giudea nacque Gesù, in seguito soprannominato il Cristo, che in greco vuol dire l’Unto (in ebraico: Messia), nel senso di consacrato da Dio. Gesù, dunque, apparteneva al popolo ebraico, l’unico popolo monoteista nell’Impero Romano. Secoli prima gli antichi profeti della Bibbia avevano preannunciato la nascita del Messia, un nuovo re di Gerusalemme, scelto da Dio, che avrebbe fondato un regno di prosperità, pace e giustizia. All’epoca di Gesù il Messia era molto atteso, come dimostrato dai manoscritti scoperti a Qumran, cosiddetti “Rotoli del Mar Morto,” nascosti dalla setta degli Esseni, dove si parla dell’attesa di un Maestro di Giustizia. Nello stesso tempo molti Ebrei si aspettavano semplicemente un Messia di tipo politico, cioè un sovrano forte e capace che avrebbe reso lo Stato di Israele libero e potente mediante la cacciata dei Romani.
La predicazione di Gesù, anche se si accordava con le profezie bibliche, deluse molti contemporanei, mentre altri ne furono entusiasmati. Gesù annunciava la realizzazione di un regno non politico, bensì divino, il Regno di Dio. Spiegava che le persone preferite da Dio sono proprio quelle che nella società appaiono perdenti: i poveri di spirito, gli afflitti, i miti, quelli che vogliono la giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, i costruttori di pace e quelli perseguitati perché sono stati giusti. L’insegnamento di Gesù ribaltava la mentalità di quei tempi: affermava che tutti gli esseri umani sono fratelli. Insegnava che l’amore è più importante della religione. Addirittura incoraggiava ad amare persino il nemico. Il Dio che Gesù ha mostrato al mondo è un amore senza limiti, infinito ed eterno. Il Cristo sottolineò il suo messaggio anche con gesti eclatanti, come la cacciata dei mercanti dal Tempio di Gerusalemme, con cui condannava la gestione del santuario da parte dei sacerdoti del Sinedrio, i quali, scandalizzati da tale predicazione e preoccupati da un’eventuale reazione romana, con la complicità di Giuda, arrestarono e processarono Gesù in piena notte con l’accusa religiosa di bestemmia. Desiderando eliminarlo, lo consegnarono al procuratore romano Ponzio Pilato, che lo condannò alla crocifissione, pena riservata ai ribelli contro l’impero, con un’accusa politica, riportata sulla croce: “Gesù di Nazareth Re dei Giudei.”

Dopo la morte di Gesù. Nascita del Cristianesimo.
Dopo la crocifissione, gli apostoli, che dapprima apparivano spaventati ed incerti, come Pietro che tre volte negò di conoscere Gesù, riferirono un fatto sconcertante: il Cristo era risorto e le prime testimoni oculari erano donne, persone la cui testimonianza nei tribunali dell’epoca non aveva valore. Prendendo coraggio dalle apparizioni di Gesù, gli apostoli diffusero il più possibile il suo messaggio, senza più temere né le autorità ebraiche né quelle romane. Nella predicazione si distinse Paolo di Tarso, un ebreo che dapprima perseguitava i cristiani ma poi si convertì a seguito di una visione, come egli stesso racconta in una delle sue lettere (la prima ai Corinzi, paragrafo 15), dove si legge la più antica testimonianza sulla resurrezione. Paolo diffuse in special modo il cristianesimo tra i pagani in quanto non costrinse alcuno a divenire ebreo prima della conversione cristiana. Sia Pietro che Paolo predicarono anche a Roma, dove sorse ben presto una comunità cristiana importante. Infatti lo storico latino Svetonio riporta che già nel 41 d.C. l’imperatore Claudio aveva cacciato via dalla capitale molti che si ribellavano a causa di un certo Cristo. Probabilmente Pietro e Paolo morirono nella prima persecuzione scatenata dall’imperatore Nerone subito dopo l’incendio del 64 d.C., come tramandato dallo storico Tacito. Sopra le tombe di questi martiri si trovano ora le grandi basiliche di San Pietro in Vaticano e San Paolo fuori le mura. Durante l’impero romano ci furono varie persecuzioni anticristiane, in particolare quelle di Domiziano (95), Settimio Severo (200), Decio (250), Valeriano (257) e Diocleziano (303).

Antitesi tra i Cristiani e l’Impero
I primi Cristiani sovvertivano tutti i valori su cui si fondava l’Impero Romano e perciò erano disprezzati dai pagani. Mentre l’imperatore pretendeva onori divini per rafforzare il suo ruolo, i Cristiani adoravano soltanto Dio e suo figlio Gesù. Mentre l’economia romana era basata sul lavoro degli schiavi e tutta la società era basata sulle differenze tra individui: uomini/donne, adulti/bambini, ricchi/poveri, ecc, per i Cristiani tutti gli esseri umani sono fratelli in quanto figli di un unico Dio. Mentre l’Impero traeva ricchezza e potenza dalla sottomissione di numerosi popoli, i cristiani insegnavano: Ama il tuo nemico! In conclusione in un mondo caratterizzato da sopraffazione e violenza, i Cristiani progettavano un amore rivoluzionario, sconfinato, come quello di Dio. Pur vivendo nell’Impero Romano, essi sapevano di essere già abitanti del Regno dei Cieli.


L’Incendio di Roma del 64 d.C. 
Tacito, Annali, XV, 38-44.

38. Si verificò poi un disastro, non si sa se accidentale o per dolo del principe - gli storici infatti tramandano le due versioni - comunque il più grave e spaventoso toccato alla città a causa di un incendio. Iniziò nella parte del circo contigua ai colli Palatino e Celio, dove il fuoco, scoppiato nelle botteghe piene di merci infiammabili, subito divampò,  alimentato dal vento, e avvolse il circo in tutta la sua lunghezza. Non  c'erano palazzi con recinti e protezioni o templi circondati da muri o  altro che facesse da ostacolo. L'incendio invase, nella sua furia, dapprima il piano, poi risalì sulle alture per scendere ancora verso il  basso, superando, nella devastazione, qualsiasi soccorso, per la  rapidità del flagello e perché vi si prestavano la città e i vicoli stretti e tortuosi e l'esistenza di enormi isolati, di cui era fatta la vecchia Roma. Si aggiungano le grida di donne atterrite, i vecchi smarriti e i bambini, e chi badava a sé e chi pensava agli altri e trascinava gli invalidi o li aspettava; e chi si precipita e chi indugia, in un intralcio generale. Spesso, mentre si guardavano alle spalle, erano investiti dal fuoco sui fianchi e di fronte, o, se alcuno riusciva a scampare in luoghi vicini, li trovava anch'essi in preda alle fiamme, e anche i posti che credevano lontani risultavano immersi nella stessa rovina. Nell'impossibilità, infine, di sapere da cosa fuggire e dove muovere, si riversano per le vie e si buttano sfiniti nei campi. Alcuni, per aver perso tutti i beni, senza più nulla per campare neanche un giorno, altri, per amore dei loro cari rimasti intrappolati nel fuoco, pur potendo salvarsi, preferirono morire. Nessuno osava lottare contro le fiamme per le ripetute minacce di molti che impedivano di spegnerle, e perché altri appiccavano apertamente il fuoco, gridando che questo era l'ordine ricevuto, sia per potere rapinare con maggiore libertà, sia che quell'ordine fosse reale.  39. Nerone, allora ad Anzio, rientrò a Roma solo quando il fuoco si stava avvicinando alla residenza, che aveva edificato per congiungere il Palazzo coi giardini di Mecenate. Non si poté peraltro impedire che fossero inghiottiti dal fuoco il Palazzo, la residenza e quanto la circondava. Per prestare soccorso al popolo, che vagava senza più una dimora, aprì il Campo di Marte, i monumenti di Agrippa e i suoi giardini, e fece sorgere baracche provvisorie, per dare accoglienza a questa massa di gente bisognosa di tutto. Da Ostia e dai comuni vicini vennero beni di prima necessità e il prezzo del frumento fu abbassato fino a tre sesterzi per moggio. Provvedimenti che, per quanto intesi a conquistare il popolo, non ebbero l'effetto voluto, perché era circolata la voce che, nel momento in cui Roma era in preda alle fiamme, Nerone fosse salito sul palcoscenico del Palazzo a cantare la caduta di Troia, raffigurando in quell'antica sciagura il disastro attuale.  40. Al sesto giorno finalmente l'incendio fu domato alle pendici dell'Esquilino, dopo aver abbattuto, su una grande estensione, tutti gli edifici, per opporre alla ininterrotta violenza devastatrice uno spazio sgombro e, per così dire, il vuoto cielo. Non era ancora cessato lo spavento né rinata una debole speranza: di nuovo il fuoco divampò in luoghi della città più aperti; ciò determinò un numero di vittime  inferiore, ma più vasto fu il crollo di templi degli dèi e di porticati destinati allo svago. Questo secondo incendio provocò commenti ancora più  aspri, perché era scoppiato nei giardini Emiliani, proprietà di Tigellino, e si aveva la sensazione che Nerone cercasse la gloria di fondare una nuova città e di darle il suo nome. Infatti dei quattordici quartieri in cui è ancora divisa Roma, ne rimanevano intatti quattro, con tre rasi al suolo e degli altri sette restavano pochi relitti di case, mezzo diroccate e semiarse. 41. Calcolare il numero delle case, degli isolati e dei templi andati distrutti non è facile: fra i templi di più antico culto bruciarono quello  di Servio Tullio alla Luna, il grande altare e il tempietto che l'arcade Evandro aveva consacrato, in sua presenza, a Ercole, il tempio votato a Giove Statore da Romolo e la reggia di Numa e il delubro di Vesta coi  penati del popolo romano; e poi le ricchezze accumulate con tante vittorie, e capolavori dell'arte greca e i testi antichi e originali dei grandi nomi della letteratura, sicché, anche nella straordinaria bellezza della città che risorgeva, i vecchi ricordavano molti capolavori ora non più sostituibili. Ci fu chi osservò che l'incendio era scoppiato il diciannove di luglio, lo stesso giorno in cui i Senoni presero Roma e la diedero alle fiamme. Altri giunsero a calcoli così maniacali da stabilire che tra i due incendi erano trascorsi lo stesso numero di anni, di mesi e  di giorni. 42. Sfruttò Nerone la rovina della patria per costruirsi un palazzo, in cui destassero meraviglia non tanto le pietre preziose e l'oro, di normale  impiego anche prima, in uno sfoggio generalizzato, quanto prati e laghetti e, a imitazione di una natura selvaggia, da una parte boschi, dall'altra prati soleggiati e vedute panoramiche, il tutto opera di due architetti, Severo e Celere, che avevano avuto l'audacia intellettuale di creare con l'artificio ciò che la natura aveva negato, sperperando le risorse del principe. Avevano, infatti, promesso di scavare un canale navigabile dal lago Averno fino alle foci del Tevere, attraverso spiagge desolate e  l'ostacolo dei monti. Non esiste, infatti, altro terreno acquitrinoso da cui derivare le acque, se non le paludi pontine: tutto il resto è scosceso e arido e, se si fosse potuto aprire un passaggio, la fatica sarebbe stata tremenda e sproporzionata. Tuttavia Nerone, nella sua smania di cose impossibili, tentò degli scavi nelle alture vicine all'Averno, e restano le tracce di questo progetto irrealizzato. 43. Sulle aree della città che, dopo la costruzione della reggia, restavano libere, non si costruì, come dopo l'incendio dei Galli, senza un piano e nel disordine, bensì calcolando l'allineamento delle vie e la carreggiata ampia delle strade, ponendo limiti di altezza agli edifici, con vasti cortili e con l'aggiunta di portici, per proteggere le facciate degli isolati. Nerone promise di costruire i portici a sue spese e di  restituire ai loro proprietari le aree fabbricabili sgombre dalle macerie.  Assegnò dei premi, secondo il ceto e le disponibilità economiche di ciascuno, e fissò un limite di tempo entro cui potessero disporne, a costruzione ultimata di case o isolati. Destinò allo scarico delle macerie le paludi di Ostia e dispose che le navi, che risalivano il Tevere portando frumento, lo discendessero cariche di macerie, e volle che per gli edifici, in certe parti della loro struttura, non si ricorresse  all'impiego di travi, ma alle pietre di Gabi o di Albano, perché refrattarie al fuoco; poi, allo scopo che l'acqua, prima deviata abusivamente da privati, scorresse più abbondante e in più luoghi, ad uso pubblico, vi pose dei custodi, stabilendo che ciascun proprietario tenesse in luogo accessibile il necessario per spegnere gli incendi e che ciascun  edificio avesse, su tutti i lati, muri propri, senza pareti in comune. Provvedimenti questi che, accolti con favore per la loro utilità, conferiscono anche decoro alla nuova città. Tuttavia, secondo alcuni, il vecchio assetto della città garantiva maggiori vantaggi alla salute, perché i vicoli stretti e le costruzioni alte non erano penetrate così facilmente dai raggi del sole: in tal modo, invece - dicevano - gli ampi spazi, non protetti da ombra di sorta, erano esposti a una calura più insopportabile. 44. Tali furono le misure adottate dalla provvidenza degli uomini. Subito dopo si ricorse a riti espiatori rivolti agli dèi e vennero consultati i libri sibillini, su indicazioni dei quali si tennero pubbliche preghiere a Vulcano, a Cerere e a Proserpina, e cerimonie propiziatorie a Giunone, affidate alle matrone, dapprima in Campidoglio, poi sulla più vicina spiaggia di mare, da dove si attinse l'acqua per aspergere il tempio e la statua della dea, mentre banchetti rituali in onore delle dee e veglie sacre furono celebrati dalle donne sposate. Ma non le risorse umane, non i contributi del principe, non le pratiche religiose di propiziazione potevano far tacere le voci sui tremendi sospetti che qualcuno avesse voluto l'incendio. Allora, per soffocare ogni diceria, Nerone spacciò per colpevoli e condannò a pene di crudeltà particolarmente ricercata quelli che il volgo, detestandoli per le loro infamie, chiamava cristiani. Derivavano il loro nome da Cristo, condannato a morte, sotto l'imperatore Tiberio, dal procuratore Ponzio Pilato. Momentaneamente soffocata, questa rovinosa superstizione proruppe di nuovo, non solo in Giudea, terra d'origine del flagello, ma anche a Roma, in cui convergono da ogni dove e trovano seguaci le pratiche e le brutture più tremende. Furono dunque dapprima arrestati quanti si professavano cristiani; poi, su loro denuncia, venne condannata una quantità enorme di altri, non tanto per l'incendio, quanto per il loro odio contro il genere umano. Quanti andavano a morire subivano anche oltraggi, come venire coperti di pelli di animali selvatici ed essere sbranati dai cani, oppure crocefissi ed arsi vivi come torce, per servire, al calar della sera, da  illuminazione notturna. Per tali spettacoli Nerone aveva aperto i suoi giardini e offriva giochi nel circo, mescolandosi alla plebe in veste d'auriga o mostrandosi ritto su un cocchio. Per cui, benché si trattasse di colpevoli, che avevano meritato punizioni così particolari, nasceva nei loro confronti anche la pietà, perché vittime sacrificate non al pubblico bene bensì alla crudeltà di uno solo.


Video ricostruttivo dell'incendio di Roma del 64 d.C. Durata 4 minuti circa.


Video sulla Tomba di San Pietro 
(durata: circa 11 minuti; il monumento si mostra dopo i primi 6 minuti)


Video sulla Domus Aurea di Nerone, la grande residenza imperiale 
costruita dopo l'incendio del 64 d.C e rasa al suolo dagli imperatori seguenti 
(durata: circa 12 minuti)

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 Lettere tra Plinio e Traiano 
sulle persecuzioni anticristiane

Gaio Plinio Cecilio Secondo il Giovane (61-113 d.C.), verso la fine della sua vita, probabilmente dal 111 al 113 d.C.,  fu governatore della Bitinia e del Ponto (attuale Turchia). Scrisse numerose lettere, raccolte in 10 volumi. Il X contiene sia lettere scritte in Bitinia da Plinio a Traiano, sia le risposte dell'imperatore. In particolare la lettera 96 informa il sovrano delle attività riguardanti i processi ai cristiani e pone domande sulla giusta procedura da seguire; la risposta di Traiano a Plinio è la lettera 97.

Plinio il Giovane, Libro X delle Lettere, Lettera n.96
Signore, è per me un dovere deferire a te tutte le questioni in merito alle quali sono incerto. Chi infatti può meglio dirigere la mia titubanza o istruire la mia incompetenza? Non ho mai preso parte ad istruttorie a carico dei Cristiani; pertanto, non so che cosa e fino a qual punto si sia soliti punire o inquisire. Ho anche assai dubitato se si debba tener conto di qualche differenza di anni; se anche i fanciulli della più tenera età vadano trattati diversamente dagli uomini nel pieno del vigore; se si conceda grazia in seguito al pentimento, o se a colui che sia stato comunque cristiano non giovi affatto l’aver cessato di esserlo; se vada punito il nome di per se stesso, pur se esente da colpe, oppure le colpe connesse al nome. Nel frattempo, con coloro che mi venivano deferiti quali Cristiani, ho seguito questa procedura: chiedevo loro se fossero Cristiani. Se confessavano, li interrogavo una seconda e una terza volta, minacciandoli di pena capitale; quelli che perseveravano, li ho mandati a morte. Infatti non dubitavo che, qualunque cosa confessassero, dovesse essere punita la loro pertinacia e la loro cocciuta ostinazione. Ve ne furono altri affetti dalla medesima follia, i quali, poiché erano cittadini romani, ordinai che fossero rimandati a Roma. Ben presto, poiché si accrebbero le imputazioni, come avviene di solito per il fatto stesso di trattare tali questioni, mi capitarono innanzi diversi casi. Venne messo in circolazione un libello anonimo che conteneva molti nomi. Coloro che negavano di essere cristiani, o di esserlo stati, ritenni di doverli rimettere in libertà, quando, dopo aver ripetuto quanto io formulavo, invocavano gli dei e veneravano la tua immagine, che a questo scopo avevo fatto portare assieme ai simulacri dei numi, e quando imprecavano contro Cristo, cosa che si dice sia impossibile ad ottenersi da coloro che siano veramente Cristiani. Altri, denunciati da un delatore, dissero di essere cristiani, ma subito dopo lo negarono; lo erano stati, ma avevano cessato di esserlo, chi da tre anni, chi da molti anni prima, alcuni persino da vent’anni. Anche tutti costoro venerarono la tua immagine e i simulacri degli dei, e imprecarono contro Cristo. Affermavano inoltre che tutta la loro colpa o errore consisteva nell’esser soliti riunirsi prima dell’alba e intonare a cori alterni un inno a Cristo come se fosse un dio, e obbligarsi con giuramento non a perpetrare qualche delitto, ma a non commettere né furti, né frodi, né adulteri, a non mancare alla parola data e a non rifiutare la restituzione di un deposito, qualora ne fossero richiesti. Fatto ciò, avevano la consuetudine di ritirarsi e riunirsi poi nuovamente per prendere un cibo, ad ogni modo comune e innocente, cosa che cessarono di fare dopo il mio editto nel quale, secondo le tue disposizioni, avevo proibito l’esistenza di sodalizi. Per questo, ancor più ritenni necessario l’interrogare due ancelle, che erano dette ministre, per sapere quale sfondo di verità ci fosse, ricorrendo pure alla tortura. Non ho trovato null’altro al di fuori di una superstizione balorda e smodata. Perciò, differita l’istruttoria, mi sono affrettato a richiedere il tuo parere. Mi parve infatti cosa degna di consultazione, soprattutto per il numero di coloro che sono coinvolti in questo pericolo; molte persone di ogni età, ceto sociale e di entrambi i sessi, vengono trascinati, e ancora lo saranno, in questo pericolo. Né soltanto la città, ma anche i borghi e le campagne sono pervase dal contagio di questa superstizione; credo però che possa esser ancora fermata e riportata nella norma.

Risposta di Traiano a Plinio, libro X delle Lettere di Plinio, lettera n.97
 Mio caro Secondo, nell’istruttoria dei processi di coloro che ti sono stati denunciati come  Cristiani, hai seguito la procedura alla quale dovevi attenerti. Non può essere stabilita infatti una regola generale che abbia, per così dire, un carattere rigido. Non li si deve ricercare; qualora vengano denunciati e riconosciuti colpevoli, li si deve punire, ma in modo tale che colui che avrà negato di essere cristiano e lo avrà dimostrato con i fatti, cioè rivolgendo suppliche ai nostri dei, quantunque abbia suscitato sospetti in passato, ottenga il perdono per il suo ravvedimento. Quanto ai libelli anonimi messi in circolazione, non devono godere di considerazione in alcun processo; infatti è prassi di pessimo esempio, indegna dei nostri tempi.


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Atti di San Massimiliano

Gli Atti dei martiri sono resoconti dei processi dei martiri cristiani
Alcuni sono atti ufficiali, redatti nei tribunali, altri sono stati scritti da persone che assistettero ai processi o ne ebbero notizia da chi era presente ai fatti. Tra i numerosi Atti dei Martiri, troviamo gli Atti di San Massimiliano, un giovane processato nel 295 d.C., all’epoca dell’imperatore Diocleziano, a Tebesa, una città dell’Africa Proconsolare (=Algeria).

«Sotto il consolato di Tusco e Anulio, il 12 marzo dell'anno 295 d.C., a Tebesa, fu chiamato in tribunale Fabio Vittore assieme a Massimiliano. L’avvocato Pompeiano, autorizzato a parlare, disse: “Fabio Vittore, esattore del temo, è introdotto con Valeriano Quinziano, preposto imperiale, con il coscritto abile al servizio Massimiliano, figlio di Vittore; poiché è arruolabile, chiedo sia passato allo statimetro”. Il proconsole Dione domandò: “Come ti chiami ?”. Massimiliano rispose: “Perché vuoi sapere il mio nome? A me non è lecito prestare il servizio militare, dato che sono Cristiano”. Il proconsole Dione disse: “Misuratelo!”. Mentre veniva preparato per essere misurato, Massimiliano affermò: “Non posso prestare il servizio militare; non posso far del male. Sono Cristiano”. Il proconsole Dione ordinò: “Sia misurato!” Avvenuta la misurazione, fu data lettura da parte dell’incaricato: “Misura cinque piedi e dieci once (=m 1,73)”. Dione disse all’incaricato: “Riceva la piastrina di riconoscimento”. Massimiliano, facendo resistenza, si oppose: “Non lo faccio, non posso prestare il servizio militare”. Dione disse: “Fa il militare se non vuoi morire!”. Massimiliano rispose: “Non faccio il soldato. Tagliami pure la testa, io non faccio il soldato per questo mondo, ma servo il mio Dio”. Il proconsole Dione riprese: “Chi ti ha messo queste idee nella testa?”. Massimiliano rispose: “La mia coscienza e colui che mi ha chiamato”. Dione si rivolse a suo padre Vittore: “Fa’ ragionare tuo figlio!”. Vittore rispose: “Lui sa da sé con la propria coscienza, che cosa deve fare”. Dione a Massimiliano: “Fa il servizio militare e prendi la piastrina di riconoscimento”. Massimiliano rispose: “Non accetto la piastrina. Ho già il segno del Cristo mio Dio”. Dione riprese: “Ti mando subito dal tuo Cristo…!”. Massimiliano rispose: “Vorrei soltanto che tu lo facessi. Questo sarebbe anche la mia gloria!”. Dione si rivolse all’incaricato: “Gli sia messa la piastrina di riconoscimento!”. Opponendosi, Massimiliano disse: “Non accetto il segno di riconoscimento del mondo; se me lo metterai addosso, lo spezzerò, perché non ha nessun valore. Io sono Cristiano, non mi è permesso tenere al collo una piastrina di piombo, dopo il segno di salvezza del mio Signore Gesù Cristo Figlio del Dio vivente, che tu non conosci, che ha sofferto per la nostra salvezza, che Dio consegnò come prezzo per i nostri peccati. Tutti noi Cristiani serviamo lui, seguiamo lui, principe della vita, garante della salvezza”. Dione disse: “Fa il soldato e prendi la piastrina, sa non vuoi morire!”. Massimiliano rispose: “Io non muoio. Il mio nome è già presso il mio Signore. Non posso fare il soldato”. Dione disse: “Pensa alla tua giovinezza e fa’ il soldato: perché questo si conviene ad un giovane!”. Massimiliano rispose: “Il mio servizio è per il mio Signore. Non posso servire al mondo come soldato. L’ho già detto, sono cristiano”. Riprese il proconsole Dione: “Nella guardia d’onore dei nostri Imperatori Diocleziano e Massimiano, Costanzo e Massimo (Galerio), vi sono soldati Cristiani e fanno il soldato”. Massimiliano rispose: “Essi sanno che cosa convenga loro. Tuttavia io sono Cristiano e non posso fare del male”. Dione disse: “Quelli che prestano il servizio militare, che male fanno ?”. Massimiliano rispose: “Tu lo sai di sicuro che cosa fanno”. Il proconsole rispose: “Fa’ il soldato, per non finir male col tuo disprezzo del servizio militare!”. Massimiliano concluse: “Io non morirò; ma se uscirò dal mondo, la mia anima vivrà con Cristo mio Signore”. Dione disse: “Cancella il suo nome!”. Dopo che venne cancellato, Dione continuò: “Poiché rifiutasti il servizio militare con spirito di indisciplina, ricevi la condanna che ne consegue, come esempio per gli altri”. Quindi dalla tavoletta lesse il decreto: “È stato deciso di punire con la decapitazione Massimiliano, perché con spirito di indisciplina ha rifiutato il giuramento militare”. Massimiliano disse: “Ringrazio Dio”. La sua vita terrena fu di vent’un anni, tre mesi e diciotto giorni. E mentre veniva condotto al luogo del supplizio, disse così: “Amatissimi fratelli, con tutte le vostre forze e con entusiasmo pieno di desiderio affrettatevi ad ottenere di vedere il Signore e meritare anche voi l’attribuzione di questa corona”. Poi col volto radioso, disse così a suo padre: “Da’ al carnefice la mia veste nuova, che mi avevi preparato per il servizio militare. Così ti accoglierò con la schiera dei santi e così possiamo essere glorificati insieme col Signore”. Subito dopo fu sottoposto al martirio.


Il contesto storico-culturale e religioso 
del martirio di Massimiliano di Tebesa.

Nel Vangelo di Matteo, Gesù dice ai discepoli:
Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”.
Il più antico catechismo cattolico è la “Tradizione Apostolica” di Ippolito, scritta agli inizi del III sec. d.C.: Il soldato non deve uccidere nessuno. Se riceve questo ordine, non deve obbedire. Se non accetta queste condizioni, sarà scomunicato.
Tertulliano, teologo nord-africano, agli inizi del III sec., scrisse nell’”Apologeticum”: Il giuramento militare e le promesse battesimali fatte a Dio sono inconciliabili, così come lo sono il segno di Cristo e il segno del Diavolo (…). A noi Cristiani non è permesso assumere nessuna divisa e nessun comportamento destinati a compiere atti illeciti."


Cosa vuol dire esattamente “amare il nemico” e perché Gesù invita i discepoli ad un atteggiamento tanto sorprendente?

Secondo Martin Luther King, amare il nemico vuol dire anzitutto avere la capacità di perdonare chi ci ha fatto un torto. Soltanto chi sa perdonare, sa amare pienamente. Perdonare vuol dire tornare a fidarsi, tornare a volersi bene. 
Amare il nemico vuol dire riconoscere che egli non è soltanto un cattivo, in quanto anche egli è certamente capace di amare, perché come noi è ad immagine di Dio. 
Osservando bene il nostro nemico, ci accorgeremo che il suo odio per noi può nascere da paura, ignoranza, incomprensioni, ecc. Pertanto il nemico non va annientato, ma conquistato con l’amicizia e la comprensione. 
L’amore cristiano non è semplicemente un’esperienza sentimentale. I sentimenti vanno e vengono, sono instabili. L’amore è un atteggiamento: volere il bene degli altri senza chiedere nulla in cambio. Noi amiamo gli altri perché sappiamo che anche Dio li ama. 
Noi possiamo odiare un’azione malvagia, ma non la persona che l’ha commessa. L’azione e la persona sono due cose diverse, distinte e separate. La persona è molto di più dell’azione compiuta. 
Dunque perché amare i nemici? L’odio non può scacciare l’odio. Solo l’amore può farlo. L’odio accresce altro odio. Inoltre l’odio deturpa l’anima e sconvolge la personalità. L’odio è dannoso anche per la persona che lo prova, perché porta alla confusione tra bene e male, tra vero e falso, come accade alle persone razziste, che odiano chi viene da altrove. 
Soprattutto l’amore è l’unica forza capace di trasformare il nemico in amico. La storia ce ne offre molti esempi: San Francesco e i briganti, il Presidente Lincoln e Stanton, Gandhi e gli Inglesi, Martin Luther King e i bianchi d’America, ecc.



A Roma nel 320 d.C. (età costantiniana)




La caduta dell'Impero Romano: 
Prima Parte


La caduta dell'Impero Romano:
Seconda Parte


La fede inventata dell’imperatore

Saggi . «Costantino e le sfide del cristianesimo», un volume collettivo per il Pozzo di Giacobbe. Un’opera coraggiosa che svela l’ uso pubblico della storia teso a legittimare il potere temporale della Chiesa
L'imperatore Costan­tino, la sua con­ver­sione al cri­stia­ne­simo, la bat­ta­glia di Ponte Mil­vio, l’Editto di Milano costi­tui­scono uno dei più riu­sciti modelli di «uso pub­blico della sto­ria», per ripren­dere l’espressione di Nicola Gal­le­rano. Un pro­cesso con cui – scri­veva Gal­le­rano nel volume Le verità della sto­ria. Scritti sull’uso pub­blico del pas­sato, mani­fe­sto­li­bri –, mediante i mezzi di comu­ni­ca­zione di massa, la scuola, i monu­menti si pro­muove una «let­tura del pas­sato pole­mica nei con­fronti del senso comune sto­rico o sto­rio­gra­fico» e si usa la sto­ria per la bat­ta­glia politica. Com­plice l’anniversario numero 1.700 della pro­mul­ga­zione di quello che è spesso chia­mato Editto di Milano, il 2013 appena con­cluso è stato costel­lato di ini­zia­tive per cele­brare la ricor­renza dell’evento dell’anno 313. Mostre, fran­co­bolli, pub­bli­ca­zioni, numeri spe­ciali di rivi­ste anche a grande tira­tura, tra­smis­sioni tele­vi­sive che hanno con­tri­buito a raf­for­zare nell’immaginario col­let­tivo con­vin­zioni tanto acqui­site quanto sto­rio­gra­fi­ca­mente errate, ovvero che la bat­ta­glia di Ponte Mil­vio fra Costan­tino e Mas­sen­zio fu vinta gra­zie ad un sogno-visione e che a Milano fu pro­mul­gato un editto. Arriva allora oppor­tuna la pub­bli­ca­zione di Costan­tino e le sfide del cri­stia­ne­simo. Tracce per una dif­fi­cile ricerca, curata da Sta­ni­slaw Ada­miak e Ser­gio Tan­za­rella (Il Pozzo di Gia­cobbe, pp. 288, euro 23). 
Un volume col­let­tivo corag­gioso per­ché nato all’interno di un «libero semi­na­rio» di sto­ria della Chiesa tenuto nell’università Gre­go­riana, ate­neo pon­ti­fi­cio retto dai gesuiti, uno dei «tem­pli» della cul­tura cat­to­lica, a cui hanno par­te­ci­pato gio­vani sto­rici pro­ve­nienti da decine di nazioni, per lo più extra-europee. E que­sta è stata una delle con­di­zioni che ha reso pos­si­bile la rea­liz­za­zione di una ricerca non viziata da pre­giu­dizi roma­no­cen­trici. L’altra, neces­sa­ria in ogni ricerca, è il ritorno rigo­roso alle fonti, per disin­ne­scare «i mec­ca­ni­smi di un uso pub­blico della sto­ria del cri­stia­ne­simo e dei masche­ra­menti del potere che ha costruito la figura di un Costan­tino cri­stiano al quale Dio con­cede potere e pro­te­zione a comin­ciare da un campo di bat­ta­glia fino all’indizione di un Con­ci­lio». Il risul­tato è un libro che pro­ble­ma­tizza la que­stione costan­ti­niana, libe­rando il campo da sem­pli­fi­ca­zioni e fal­si­fi­ca­zioni attorno ai nodi più discussi della vicenda di Costantino.
Come appunto l’Editto di Milano del 313, erro­nea­mente con­si­de­rato il primo prov­ve­di­mento di tol­le­ranza per i culti – fra cui il cri­stia­ne­simo –, poi­ché già due anni prima, a Nico­me­dia, l’imperatore Gale­rio, aveva ema­nato un prov­ve­di­mento gra­zie al quale il cri­stia­ne­simo era diven­tato «reli­gione lecita». Che a Milano sia stato pro­mul­gato un editto è dub­bio, in ogni caso non dal solo Costan­tino: a Milano si sono incon­trati i due «augu­sti» dell’epoca, Costan­tino e Lici­nio, per discu­tere que­stioni rela­tive «al rispetto della divi­nità», suc­ces­si­va­mente diven­tate norme che hanno assi­cu­rato ai cri­stiani la libertà reli­giosa e la resti­tu­zione dei luo­ghi di culto con­fi­scati. Del resto dell’Editto non esi­ste alcun testo, ma solo una let­tera inviata al gover­na­tore della Biti­nia da Lici­nio dopo il suo arrivo a Nico­me­dia nel giu­gno 313 in cui si fa rife­ri­mento alle deci­sioni di Milano.
La vit­to­ria finale di Costan­tino, secondo la dina­mica per cui la sto­ria viene scritta dai vin­ci­tori (le fonti prin­ci­pali sono Euse­bio e Lat­tan­zio, cri­stiani e costan­ti­niani), ha oscu­rato la figura di Lici­nio. Ed essendo Costan­tino il primo impe­ra­tore ad optare per il cri­stia­ne­simo, la legi­sla­zione del 313 e suc­ces­siva – che, fra l’altro, con­ce­deva al clero l’esenzione dal paga­mento delle tasse – si è andata con­fi­gu­rando come primo editto di tol­le­ranza del primo impe­ra­tore cristiano.
Altri due nodi, cor­re­lati fra loro: il sogno-visione di Costan­tino alla vigi­lia della vit­to­riosa bat­ta­glia di Ponte Mil­vio del 312, la con­ver­sione e il bat­te­simo dell’imperatore. Le ver­sioni di Euse­bio e Lat­tan­zio non coin­ci­dono: Costan­tino viene avver­tito in sogno di segnare sugli scudi dei suoi sol­dati il nome di Cri­sto, ma ha anche una visione della croce con la scritta Hoc signo vic­tor eris (con que­sto segno sarai vin­ci­tore). Nelle fonti non cri­stiane si segnala però che due anni prima lo stesso Costan­tino, in Gal­lia, ebbe una visione diversa: non del Dio cri­stiano, ma del pagano Sol invic­tus accom­pa­gnato da tre X, i suc­ces­sivi tre decenni di regno. Evi­dente quindi una cri­stia­niz­za­zione a poste­riori dell’apparizione pagana. Avva­lo­rata dal fatto che nell’Arco di Costan­tino, suc­ces­sivo alla bat­ta­glia di Ponte Mil­vio ma pre­ce­dente ai testi di Lat­tan­zio ed Euse­bio, non vi è alcun rife­ri­mento al Dio cri­stiano, bensì diverse divi­nità pagane e la gene­rica iscri­zione di una vit­to­ria instinctu divi­ni­ta­tis (per ispi­ra­zione di una divi­nità). Così come non vi è alcuna evi­denza sto­rica della con­ver­sione di Costan­tino, che peral­tro sarebbe stato bat­tez­zato a Nico­me­dia poco prima della sua morte nel 337 e non al Late­rano da papa Sil­ve­stro. Chiaro il dise­gno poli­tico: raf­for­zare il papato e pre­pa­rare la strada alla (falsa) Dona­zione di Costan­tino – l’imperatore con­ver­tito con­ce­deva al papa il potere sull’Italia –, fon­da­mento del potere tem­po­rale e dello Stato pon­ti­fi­cio. Più che alla fede cri­stiana, allora, quella di Costan­tino è una con­ver­sione alla Chiesa, alleata dell’impero e utile al con­so­li­da­mento del pro­prio potere.
Scavo archeologico delle insegne imperiali di Massenzio, pendici del Palatino, presso il Colosseo.

Ricostruzione delle insegne imperiali di Massenzio
rinvenute nei pressi del Colosseo.
Per saperne di più, cliccare su:
http://archeopalatino.uniroma1.it/it/content/insegne-imperiali
Per visualizzare il luogo del rinvenimento:
http://www.bing.com/maps/?v=2&cp=qzfjkhj16qzt&lvl=18.4&dir=271.41&sty=b&cid=DEC2D7A3DE71176!113&form=LMLTCC

Plastico di Roma al Museo della Civiltà Romana, particolare dei Fori imperiali
Roma: il Colosseo, come appariva ai tempi di Costantino (IV sec. d.C.)

Roma: il Ludus Magnus, la palestra dei gladiatori sorta in prossimità del Colosseo.
Le sue rovine sono parzialmente visibili in via Labicana.
Roma: il Circo Massimo.


Carta di Roma del 1575. In quell'epoca erano ancora visibili molti monumenti della Roma imperiale in seguito scomparsi.
Egitto. Monastero copto di Sant'Antonio, il più antico monastero cristiano al mondo.
La costruzione iniziò negli anni successivi alla morte del Santo per opera dei suoi discepoli, ai tempi dell'imperatore Giuliano l'Apostata (361-363). Sorge ai piedi del Gebel al Galala al Qibliya, la seconda montagna più alta d'Egitto (1218 metri) dove Antonio trascorse cinquant'anni di vita ascetica. Nato intorno al 250 in un villaggio vicino a Beni Suef, nel Medio Egitto, morì nel 356 all'età di 105 anni. Così la tradizione. È considerato il padre fondatore del monachesimo, anche se non ne è stato l'iniziatore. 











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